Il colonnello Loba, eroe ben oltre Kiev
Valerij Lobanovskyj, per 22 anni alla guida degli ucraini, è stato tra gli allenatori più innovativi (e titolati) al mondo. Maniacale e duro, ha lanciato Blokhin, Bjelanov e Sheva
Quando, al primo allenamento a Milanello, l’allora ventitreenne Andrij Shevchenko vide i nuovi compagni rientrare negli spogliatoi dopo un’ora e mezzo di allenamento, chiese: «Scusate, ma la seduta è già terminata?». E quando qualcuno gli fece notare che avevano lavorato sodo per circa 90’, lui si strinse nelle spalle e rispose: «Alla Dinamo Kiev, dopo un’ora e mezza, finiva il riscaldamento, e si cominciava a fare sul serio». Del resto, il futuro Pallone d’Oro (assegnatogli nel 2004), era abituato ad allenarsi con il Colonello, Valerij Lobanosvkyj. Che colonnello lo era per davvero, nell’Armata Rossa sovietica: figlio di un operaio e di una casalinga, s’era arruolato mentre giocava a calcio (con discreti risultati) tra Dinamo Kiev, Cernomorec e Shakhtar Donetsk. Schivo, piuttosto taciturno e poco incline al sorriso, nel frattempo si era anche laureato in ingegneria meccanica, giusto per essere sicuro di avere un altro sbocco lavorativo quando avrebbe appeso gli scarpini al chiodo.
Un rivoluzionario
Alla fine, però, l’amore per il calcio aveva avuto la meglio su qualsiasi altra possibilità professionale, e il Colonnello aveva accettato di allenare il Dnipro. Dopo cinque stagioni, durante le quali la squadra era stata promossa nel massimo campionato sovietico, Lobanoskyj non aveva saputo resistere alla chiamata del suo più grande amore, la Dinamo Kiev. E lì, grazie ad allenamenti estenuanti, una cura maniacale della preparazione atletica e un’attenzione spasmodica all’aspetto tattico, il Colonnello riuscì a dar vita a una sorta di orchestra perfetta, simile in certi aspetti all’Olanda del calcio totale che proprio in quegli anni andava rivoluzionando il modo di intendere questo sport. «Nel mio concetto di calcio servono solo uomini universali, capaci di fare tutto», diceva Loba. Li trovò e plasmò a Kiev, dove tra il 1973 e il 1982 vinse non soltanto cinque campionati sovietici e tre coppe dell’URSS, ma anche una Coppa delle Coppe e una Supercoppa UEFA, conquistata senza neppure faticare troppo contro il Bayern Monaco di Beckenbauer, Muller e Rummenigge (vittoria per 1-0 in Baviera e per 2-0 in casa). Merito del talento di Oleg Blokhin, che proprio nel 1975 fu insignito del Pallone d’Oro, ma anche di un’organizzazione che non lasciava nulla al caso: assieme ad Anatolji Zelentsov, professore di bioingegneria, e Viktor Maslov, suo predecessore sulla panchina della Dinamo, il Colonnello di fatto dette vita allo studio scientifico e statistico del calcio che oggi svolgono i match analyst. Furono loro i primi a tracciare i movimenti di ogni singolo calciatore all’interno del campo (ben prima dell’ormai dilagante moda dei Gps a mo’ di reggiseno) e i primi a studiare le porzioni di campo che il giocatore avrebbe dovuto ricoprire.
Dopo un biennio sulla panchina della nazionale sovietica, tornò alla Dinamo Kiev per un altro ciclo trionfale: incetta di trofei in patria e un’altra Coppa delle Coppe, vinta contro l’Atletico Madrid di Aragonés. Oltre al solito Blokhin, ormai a fine carriera, in questa seconda avventura lanciò Bjelanov (Pallone d’Oro nel 1986) e Zavarov. Se ne andò nel 1990, ma tornò ancora nel 1997: troppo forte il richiamo di Kiev, della Dinamo, di casa. Nel 1998-99, con la coppia Sheva-Rebrov in attacco, eliminò il Real Madrid campione d’Europa in carica e raggiunse la semifinale di Champions.
Venuto a mancare nel 2002 a 63 anni, immediatamente gli è stato intitolato lo Stadio Dynamo, a Kiev. Un gesto dovuto, per chi è stato capace di conquistare 33 trofei durante l’arco della carriera da allenatore, rivoluzionando il modo di intendere e di giocare il calcio. Chissà se la statua che lo ritrae al di fuori dell’impianto - almeno quella - sarebbe riuscita a strappare un sorriso al Colonnello Loba.
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