Roma-Shakhtar, tra gioie e dolori: i precedenti all'Olimpico
Nel 2006 battiamo 4-0 gli ucraini: segnano anche Totti, che si lascia alle spalle l'infortunio, e De Rossi. Ma quattro anni dopo i Minatori si vendicano
È il 12 settembre 2006: sono passati esattamente cinque anni e un giorno da quella data - poi diventata storica - in cui tornavamo a giocare una partita di Coppa dei Campioni, che nel frattempo era diventata Champions League, dopo diciassette anni. Quel giorno l'avversario era il Real Madrid: in un Olimpico ammutolito per il dramma che si stava consumando dall'altra parte del mondo, perdemmo contro Zidane, Raúl, Figo e il resto dei Galacticos, che nel giro di qualche mese si sarebbero laureati campioni d'Europa per la terza volta in cinque stagioni.
Una notte per veri romanisti
Cinque anni e un giorno dopo, siamo di nuovo in Champions. Quasi per caso, dopo il terremoto chiamato Calciopoli. Di fronte a noi lo Shakhtar Donetsk, allenato da una vecchia conoscenza del calcio italiano: Mircea Lucescu, che nel corso degli anni ‘90 ha guidato Pisa, Brescia, Reggiana e Inter. Gli ucraini sono una squadra ben organizzata, che ama giocare a calcio e che, già all'epoca, sta pescando in Brasile giovani talenti da crescere e svezzare al gelo, per poi rivenderli a peso d'oro. Le redini del centrocampo sono affidate a Matuzalem, sulla trequarti Elano, unica punta Brandão.
Nel primo tempo la sfida è equilibrata, la squadra allenata Luciano Spalletti fa fatica a trovare gli spazi per colpire. «Forse le tremano un po' le gambe», borbotta qualcuno, ricordando con ogni probabilità l'ultima, fallimentare esperienza nel massimo trofeo continentale di due anni prima, quando abbiamo chiuso il girone con un misero punto. Invece no, siamo cambiati, e molto. Lo dimostreremo in una magica notte francese, quando il Gerland sarà illuminato da un colpo di testa di Totti e dai doppi passi di Mancini. Il 12 settembre 2006 siamo dei predatori che attendono in agguato il momento in cui la preda abbasserà inevitabilmente la guardia. Aspettiamo che si sentano più o meno al sicuro, quindi colpiamo. E, come lupi affamati, una volta sentito l'odore del sangue non ci fermiamo più e affondiamo il colpo.
La prima zampata la mette a segno Taddei. Quant'è importante, Rodrigo, in quella squadra! È uno che riesce sempre a stupirti, ti riempie gli occhi di bellezza al punto che ti viene da pensare che non possa essere dotato anche di due polmoni inesauribili e di un'intelligenza tattica fuori dal comune. Invece lui ha tutto. È un soldatino dai piedi sopraffini, un giocoliere pratico e razionale. Totti manca di un soffio il cross dalla sinistra di Tonetto, ma appostato alle spalle del Dieci c'è proprio lui, che aggancia e col destro fulmina Shutkov. È passata poco più di un'ora dall'inizio della gara. Ce n'è voluto, per sbloccarla, ma quando capiamo che lo Shakhtar è alle corde piazziamo il colpo del ko. Che - neanche a dirlo - porta la firma più illustre.
Francesco, che sette mesi prima ha riportato un bruttissimo infortunio alla caviglia sinistra, si è rimesso in piedi a tempo di record. E, alla faccia di chi lo dava per finito, è andato a vincere il Mondiale. Durante la rassegna in Germania ha segnato quel rigore contro l'Australia che ha tenuto con il fiato sospeso un'intera nazione. Con il destro, però. Ora c'è bisogno di scacciare i demoni per lasciarsi definitivamente alle spalle l'infortunio: ci vuole un gol di sinistro. Arriva al 31' del secondo tempo. Su un corner corto Taddei prova a calciare di prima intenzione, ma cicca il pallone: si tramuta in un assist per il capitano, che dal limite compie un mezzo giro su se stesso e lascia partire un perfetto collo mancino, secco e potente. Il tiro finisce la sua corsa all'incrocio dei pali, con il portiere immobile.
L'esultanza è una vera e propria liberazione per Francesco, che corre a braccia larghe inseguito da De Rossi: è una delle più belle immagini che li ritraggono insieme. Ci sono gli ultimi venticinque anni della Roma, in quell'inseguimento festoso da parte di Daniele. Tanto che il gol del numero 16, di lì a tre minuti, sembra quasi cosa ovvia: in una serata da romanisti come questa, non può mancare la sua firma. Cross pennellato da Pizarro dalla destra, De Rossi svetta di testa, firma il tris e manda baci alla Curva Sud in festa. È una serata talmente bella, talmente perfetta, che prima del triplice fischio chiudiamo anche il poker. D'assi, ovviamente. Ci pensa Pizarro. E le stelle del logo della Champions si mischiano con quelle che riempiono il cielo di fine estate della Capitale: quanto sei bella Roma.
Un quarto d'ora di follia
L'altro confronto all'Olimpico contro lo Shakhtar Donetsk non evoca invece ricordi piacevoli. Sono gli ottavi finale della Champions 2010/2011: la Roma, passata nelle mani di Claudio Ranieri, li ha raggiunti grazie alla rocambolesca vittoria in rimonta contro il Bayern Monaco, gli ucraini - ancora sotto la guida di Lucescu - invece hanno vinto il loro raggruppamento, lasciandosi alle spalle anche l'Arsenal. Anche stavolta i Minatori hanno una folta colonia verdeoro: ci sono Douglas Costa, Jadson, Willian e Luiz Adriano a formare lo scheletro offensivo.
Il 16 febbraio 2011 passiamo in vantaggio poco prima della mezz'ora grazie ad un'autorete di Rat, che devia nella sua porta un colpo di testa di Perrotta. Ma la gioia dura poco, meno di un minuto. Trovato il vantaggio, la Roma accusa un blackout e gli arancioneri (per l'occasione in maglia bianca) ne approfittano. Proprio come avevano i giallorossi quattro anni prima. Su una respinta corta della nostra difesa, la palla arriva a Jadson che, lasciato tutto solo al limite dell'area, calcia a rete; la sua conclusione, deviata, finisce alle spalle di Doni. La squadra accusa il colpo e gli ospiti, prima dell'intervallo, si portano sull'1-3 grazie ai gol di Douglas Costa e Luiz Adriano. Nella ripresa Menez accorcia le distanze e fissa il punteggio sul 2-3, ma nella partita di ritorno in Ucraina i giallorossi, nel frattempo passati sotto la guida di Montella, perdono 3-0 e dicono addio alla Champions. Altri tempi, altra Roma: è arrivato il momento di prendersi una rivincita per quell'eliminazione.
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