Serie A

Addio, carissimo Bruno

Per gli italiani era la voce del calcio in tv, per i romanisti il cantore dell’epopea della Coppa dei Campioni 1983-84. Raccontò con misura la tragedia dell’Heysel

(GETTY IMAGES)

PUBBLICATO DA Vittorio Cupi
06 Marzo 2025 - 09:00

La sua voce entrava nelle orecchie di tutti gli italiani quando guardavano partite di calcio, usciva dalle bocche dei bambini quando giocavano a calcio, a Subbuteo o ai videogame e, oltre che provare a imitare i calciatori, imitavano anche il telecronista. Bruno Pizzul, che se n’è andato ieri a 86 anni, è stata la voce del calcio, quindi dell’Italia, per almeno due o tre generazioni di tifosi e non solo. Il semplice fatto che nessuno abbia raccontato tanti mondiali di calcio quanto lui, ben cinque, lo ha reso un fenomeno nazional-popolare anche oltre il calcio.

Pulito, garbato, dotato di un timbro di voce inconfondibile e di una proprietà di linguaggio che gli consentiva anche piccoli vezzi ma senza mai eccedere, ha rappresentato la perfezione della telecronaca calcistica. Prima di lui, si insegnava a non far mai prevalere la voce sull’immagine. Siccome c’è quella, non devi dire molto altro. Ed è per questo che le telecronache di Nando Martellini o Niccolò Carosio erano intervallate da lunghi silenzi e aggiungevano poco ai nomi dei calciatori che toccavano il pallone e la descrizione del gesto tecnico. Dopo di lui, è arrivata l’era che continua ancora oggi, in cui i telecronisti spesso fanno prevalere loro stessi e il loro racconto (basti pensare al fatto che praticamente tutti “personalizzano” l’annuncio del gol) sull’oggetto del racconto. Proprio perché c’è l’immagine, devi aggiungere qualcosa. Bruno Pizzul ha rappresentato l’accompagnamento perfetto di ciò che le immagini mostravano, bilanciando la spiegazione di ciò che lo spettatore vedeva con la gradevolezza del racconto. Un fuoriclasse assoluto.
Friulano doc, come uno dei vini che, fedele alla sua terra, amava, era nato a Cormons e lì è tornato dopo quasi 40 anni vissuti a Milano. Era stato calciatore, aveva smesso presto per problemi fisici, ma era riuscito a farsi notare da Omar Sivori. «Quanti dribbling ti ho fatto quando ci siamo incontrati?», gli disse tanto tempo dopo l’argentino alla Domenica Sportiva. «Pochi, forse nessuno». «Ah, peccato - la controrisposta - se avessi saputo che saresti diventato un grande giornalista te ne avrei fatti di più». Laureato in Giurisprudenza, entrato in Rai nel 1968, viene spedito subito ai Giochi olimpici di Città del Messico. Raccontava spesso di quando fu mandato all’improvviso a seguire un italiano in lotta per la medaglia nel judo e sul taxi provò a imparare più nozioni possibili sulla disciplina a lui sconosciuta. Non gli bastò, fece un errore, e disse a chi era con lui: «Nella vita e nel lavoro ci vogliono umiltà e competenza». Pupillo di Beppe Viola, che lo fece arrivare in ritardo alla sua prima telecronaca, un Bologna-Juventus di Coppa Italia disputato a Como, per trattenerlo a pranzo, si vantava di non aver mai avuto una promozione. «Non la volevo, perché non volevo che mi togliessero le telecronache e non volevo venire a Roma. Roma è una città troppo bella, non ci si può lavorare».

A proposito di Roma, fece la telecronaca della finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool. Aveva già raccontato altre volte la Roma, anche in quel torneo. «Proprio Oddi, ha segnato proprio Oddi!» disse a Berlino, quando il terzino portò in vantaggio i giallorossi contro la Dinamo. «Il grande mercoledì è arrivato», disse in apertura, senza nascondere il tifo per la Roma, come faceva per tutte le squadre italiane, anche se per la Nazionale un po’ di più. Non era la prima finale di Coppa Campioni che commentava, gli era già capitato nel 1982, naturalmente non sarebbe stata l’ultima. La più drammatica quella del 1985 all’Heysel: «E ora purtroppo una notizia che debbo dare, perché è ufficiale, viene dall’Uefa. Ci sono 36 morti. Una cosa rabbrividente, inaudita. E per una partita di calcio». «Volevo andarmene», raccontò poi. Ma con la professionalità che ha sempre avuto, fece il suo dovere fino all’ultimo.

Gli è mancato poter dire «Campioni del Mondo». Ma raccontò sulla piazza di Cormons la finale dell’Europeo vinto nel 2021 contro l’Inghilterra. Non ha potuto dire neanche «Campioni d’Europa» in Rai, ma nel 2000 esplose al cucchiaio di Totti. «Ha rischiato l’impossibile, ha beffato van der Sar con un “Panenka”, che aveva fatto lo stesso nella finale in Jugoslavia nel 1976». Tutto quello che bisognava dire, non una parola in più. Non gli piaceva l’inflazione delle parole nelle telecronache moderne. Per distinguersi, gli bastava un «Dino» e «Roberto», senza cognomi, quando in Nazionale c’erano due Baggio.
«Ci pare di poter dire» che è stato «tutto molto bello». Anche se ieri era tutto molto triste.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

CONSIGLIATI