Mou, il risultatista che cambia l’anima
Le vittorie di José. In un calcio in cui non ha più senso dividere i tecnici per categorie, il portoghese resta il numero uno nel dare motivazioni
Se i "risultatisti" hanno un re universalmente riconosciuto, sicuramente prima di Allegri e prima di Conte, il suo nome è José Mourinho. Ma ridurre adesso l'ingaggio dell'allenatore portoghese solo alla questione tattica, considerando la portata mediatica dell'accordo e lo stato in cui versa la squadra giallorossa, sarebbe davvero un nonsenso. Dieci anni di mancati risultati, solo per citare l'era dei proprietari americani, alternando visionari innovatori, rivoluzionari in pensione, giovani vecchi e vecchi giovani, brontoloni di talento, monumenti viventi, resilienti d'assalto ed eleganti predatori, uniti quasi tutti dalla nitida visione offensiva del calcio, hanno stemperato di fatto la contrapposizione tra chi sostiene la romantica idea del calcio d'attacco e chi invece vorrebbe vedere in panchina un cerbero col frustino nascosto sotto la tuta pronto a dissuadere il terzino che provasse a superare la metà campo. Di fatto la questione nel calcio non è più attuale. Oggi tutti, nel campionato italiano, costruiscono dal basso, tranne forse Juric che peraltro ha perso un po' del suo fascino slavo da quando il suo Verona non vince più una partita. E Mourinho non è più il convinto teorico del pullman da parcheggiare davanti alla propria porta, che conobbe il suo capolavoro resistendo strenuamente agli attacchi del Barcellona di Guardiola nell'anno in cui conquistò un triplete che la Roma in campionato e la Dinamo Kiev (prima di Messi) in Champions rischiarono di negargli. Ma Mou è stato forse il più straordinario coglitore d'attimi della storia del calcio. In una recente serie televisiva sui vincenti del calcio - categoria nella quale merita assolutamente un posto d'onore, in virtù dei suoi 25 tituli - è riuscito a far passare come un'impresa quella Coppa di Spagna vinta sul Barça di Guardiola negli anni in cui il suo Real veniva con cadenza regolare bastonato dai blaugrana in Liga e in Champions League. E uno che ha resistito all'umiliazione della manita (il 5-0 del Camp Nou il 29 novembre 2010) senza battere ciglio, dimostra di saper perdere con tanta disinvoltura che quando vince merita davvero le più efficaci grancasse mediatiche.
Vincere è la sua condanna. Anche negli anni in cui fa peggio, qualcosa in bacheca riesce a portarla a casa. Ecco perché c'è rimasto particolarmente male quest'anno quando è stato licenziato dal Tottenham proprio alla vigilia della finale della Coppa di Lega inglese, poi vinta dieci giorni fa dal City di Guardiola contro gli orfani di Mourinho, affidati ad interim al giovanissimo Mason. Nonostante le difficoltà di una squadra che quest'anno era partita a mille (24 punti nelle prime 11 partite) per poi perdersi tra Premier ed Europa League un po' come s'è persa la Roma nel secondo tempo di Manchester, José era convinto di poter conquistare la finale di Coppa contro il suo vecchio rivale. Togliergli la possibilità è stato davvero crudele, ma è il segno della mentalità di una dirigenza (quella degli Spurs) che pensa alla sostanza di una crisi infinita a cui le pretese del vecchio Mou hanno dato una sostanziosa mano, piuttosto che al ricasco mediatico di un nuovo confronto tra vecchi duellanti (cit. Condò, imperdibile libro sui due avversari di quei fantastici anni).
In questo avvio meraviglioso di Premier Mourinho era andato a vincere ad Old Trafford, sul prato del suo penultimo club, addirittura per 6-1, che a dirlo oggi ai romanisti suona vagamente canzonatorio. Col City che all'inizio non carburava, il Chelsea che balbettava e il Liverpool che mostrava i primi morsi della clamorosa crisi che l'avrebbe attanagliato c'era chi davvero pensava che Mourinho sarebbe tornato a vincere portando gli Spurs al vertice della Premier. Suggestione forse ereditata dalla visione di All or Nothing, splendido format televisivo che racconta dal di dentro le vicende di una squadra di calcio. Nell'anno in cui è scoppiata la pandemia, le telecamere si sono accese nella casa del Tottenham, ad inquadrare ogni smorfia e ogni parola del tecnico portoghese. E lì si è capito come forse non sia il mago delle strategie tattiche, ma l'uomo che più di tutti sa accarezzare l'anima dei giocatori tanto bene da farne lo spirito guida capace di portare alla vittoria. In questo è ancora il numero uno. Che poi giocherà col 4231, col 3421 o col carrarmato davanti alla porta è un dettaglio che - oggi - non interessa nessuno.
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