Non manca solo la torta, ma qualche conoscenza
All’Olimpico la spinta del pubblico spinge ad avere più coraggio. Fuori casa ci si affida troppo all’iniziativa personale, servirebbe l’organizzazione
I numeri sono impietosi. Non solo sono quattordici volte che la Roma quest’anno gioca fuori dal Raccordo Anulare e torna a casa senza vittorie, ma se allarghiamo il concetto alle trasferte europee, restringendo il conteggio a quelle fuori dai confini nazionali (quindi la vittoria a Milano dello scorso aprile non entra nel novero) l’ultima vittoria risale addirittura al 21 settembre 2023, con lo Sheriff Tirsapol, in Transnistria, che si fa fatica pure a scriverlo, figuriamoci a citarlo. Mentre in casa nelle ultime trentasei partite casalinghe giocate nelle competizioni europee, solo due volte la Roma non ha portato alla classifica dei punti (e in un caso è stato indolore perché per la qualificazione quella sconfitta, con il Betis Siviglia, non ha avuto valore): e dal ko con gli spagnoli, la Roma ha inanellato dieci vittorie e due pareggi, oltre alla sconfitta con il Bayer Leverkusen nella semifinale dello scorso maggio. Sembrano i numeri di due squadre diverse. Nessun club di primaria importanza (per risultati e fatturato la Roma fa certamente parte di questa élite continentale) vive una tale dicotomia.Visualizza questo post su Instagram
Meglio con De Rossi
Mourinho ha ironizzato sulla mancanza del conforto con quell’immagine iconica della torta della nonna (non sbaglia un messaggio il portoghese), Ranieri ancora non riesce a spiegarsi come sia possibile, con Juric si faceva male dentro e fuori. Forse bisogna avere il coraggio di ammettere che l’unico allenatore che sia riuscito a dotare negli ultimi tre anni la squadra giallorossa dei mezzi tattici per non soffrire troppo fuori casa sia stato proprio Daniele De Rossi, il tecnico cacciato alla quarta giornata quest’anno prima ancora di esordire in Europa. L’anno scorso ha giocato quattro volte in trasferta, pareggiando all’esordio con il Feyenoord, perdendo con il Brighton - ma senza giocare realmente la partita dopo il 4-0 dell’andata - vincendo a Milano con una strategia di gara perfetta e poi pareggiando 2-2 sull’impossibile campo del Bayer Leverkusen dello scorso anno, quando ormai le forze della squadra sembravano esaurite (e Dybala si arrese prima). C’è una morale in tutto questo? Sì, perché per avere fuori casa quel coraggio che il pubblico dell’Olimpico sa fornire alla squadra, bisogna avere delle conoscenze specifiche che a volte ai giocatori sul campo sembrano mancare. E in Europa questo difetto viene inevitabilmente acuito. Capita sempre più spesso infatti che dentro stadi neanche così bollenti (quest’anno oltre che a Londra con il Tottenham, stadio che per quanto grande è silenzioso come un maestoso teatro dell’opera, la Roma ha giocato di fronte agli 11789 tifosi dell’Elfsborg, ai 15875 del Saint Gilloise e giovedì ai 18636 dell’Az Alkmaar), la Roma soccomba tatticamente alle invenzioni di tecnici sconosciuti ai più come Hiljemark, Pocognoli e adesso Martens, coraggiosi allenatori di squadre con valori tecnici che impallidiscono di fronte a quelli vantati dai nostri. Sarebbe ora di dire, insomma, che oltre alla torta della nonna i calciatori della Roma si portino in dote in trasferta anche quelle conoscenze tattiche utili ad attaccare la porta avversaria con maggior raziocinio, ad uscire nel palleggio dal basso secondo modalità note e riconoscibili, a muovere le pedine del centrocampo attraverso rotazioni studiate in allenamento, a difendere di reparto e non solo per iniziativa individuale ecc ecc, a fare cioè quello per cui ci si dovrebbe preparare ogni giorno a Trigoria. E nessuno ne vuol fare una colpa a Mourinho, a Juric o a Ranieri, nello specifico, o magari a De Rossi per quando la sua squadra ha giocato male, soprattutto nella parte finale della scorsa stagione: ma va detto forte e chiaro che non si può ridurre tutto al caso o al gol subito quando non sembrava che si corressero più rischi particolari. Per censo, fatturato e valori tecnici, l’Az Alkmaar deve essere sempre battuto dalla Roma, e se non avviene, se si gioca peggio e se poi alla fine vincono loro, bisognerebbe avere maggior capacità di autocritica. Poi Mourinho ci ha portati a vincere e dunque a posteriori si è potuto sostenere che il gioco sia valso la candela, così come oggi si deve essere grati a Ranieri per il lavoro svolto finora che inevitabilmente non si è concentrato solo sul campo. Ma va detto che la sconfitta anche stavolta ha precise motivazioni tattiche.
Lo schema Dybala
Ad esempio ad Alkmaar nel primo tempo la Roma non è quasi mai riuscita ad uscire con il palleggio sia quando gli olandesi hanno provato a pressare alto sia quando invece hanno atteso nella loro metà campo. Troppe volte lo schema della squadra giallorossa si è risolto con “palla a Dybala e vediamo che succede”, mentre dall’altra parte si organizzava la manovra con un obiettivo sempre preciso, con sovrapposizioni interne ed esterne, rotazioni dei centrocampisti, attacchi a più uomini e su diverse linee. Mentre troppe volte i difensori romanisti alzavano la testa per cercare Dovbyk in avanti, contando magari sulla sponda dell’ucraino e, ancora, l’estro inventivo di Dybala. In transizione poi la Roma resta una delle squadre più battibili d’Europa e, come avevamo già scritto in altre edizioni, non è (solo) una questione di marcature preventive: i difensori possono anche accorciare bene sugli attaccanti, ma se poi la ripartenza è in corsa con tanto campo alle spalle, e dunque tanta profondità da attaccare, difendere diventa difficile per chiunque. Nel secondo tempo c’è stato invece il problema opposto, quando è uscito Dovbyk e la Roma ha prodotto il massimo sforzo in ordine ai cross in area. Ne sono stati fatti 17 in totale, quasi tutti nel 2’ tempo. Inutile cercare Soulé o Dybala di testa, ovviamente, bisognava cercare maggiormente l’aggiramento ragionato o il cambio di gioco esterno su esterno, sfruttando l’attitudine dei difensori olandesi ad accorciare verso la zona palla con la “corta” difesa a quattro. Per poi attaccare velocemente la profondità e sfruttare uno-due, dribbling e magari cross più mirati (e non mandati in area un po’ a casaccio, come è sembrato anche stavolta). Basti ripassare anche le azioni riproposte in grafica nella pagina accanto: quei meccanismi non perfettamente rodati sull’attacco alla profondità esterna dei quinti (vedi Angeliño, che va avanti quando deve andare indietro e viceversa) oppure quelle scalature troppo spesso all’indietro sulle iniziative offensive avversarie, sono dettagli che sembrano lasciati al caso e alle singole attitudini. La difesa spesso si slabbra, o si muove su troppe linee, gli attacchi non sono coordinati. Poi, in casa, tutto questo sparisce: come riordinati dalla spinta del pubblico, i giocatori si muovono più armoniosi. Ma non è un caso. Non può essere solo un caso.
© RIPRODUZIONE RISERVATA