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L'analisi di Verona-Roma: le pressioni estreme che sfiancano i giallorossi

Una costante già dai tempi di De Rossi: con la squadra allungata in avanti in marcatura individuale, le transizioni avversarie sono spesso letali

(GETTY IMAGES)

PUBBLICATO DA Daniele Lo Monaco
05 Novembre 2024 - 07:30

Cronaca di un disastro (tattico) annunciato. Duole ripetere gli stessi concetti, ma sembra evidente che la Roma non c’è più ed era l’analisi dolorosissima che era già stata fatta dopo Firenze e prima ancora, subito dopo l’esonero di Daniele De Rossi. Eppure nessuno fa niente. La Roma non c’è più, sta a Friedkin ricostruirla, ma sarà un’operazione lunga, faticosa e ugualmente dolorosa perché non c’è alcuna base di partenza su cui appoggiarsi per la ricostruzione. E lo scempio di Verona, diverso nelle modalità da quello di Firenze, ma forse ancor più penoso, sta lì a testimoniarlo. Ancora una volta ci ritroviamo a commentare una squadra che ha dovuto adattare la propria corporatura su un vestito stretto e non il contrario; ancora una volta abbiamo assistito ad una prova spericolata di una squadra concepita per difendere (male); ancora una volta ci ritroviamo a domandarci perché Angeliño debba fare il difensore, perché Le Fée debba marcare come uno stopper, perché Celik è il giocatore più avanzato della Roma, perché Soulé debba partire da zolle centrali, perché Pellegrini sia diventato un giocatore dannoso, perché Mancini debba rinnegare le sue qualità disperdendo la maggior parte delle energie in inutili corse di tamponamento e, persino, altrettanto inutili proiezioni offensive, perché Zalewski continui a ripetere sempre gli stessi errori di valutazione sentendosi evidentemente libero di poterli commettere. Perché, insomma, la Roma sia diventata tatticamente la squadra più morbida della Serie A nonostante un organico da tutti considerato da zona Champions. 

Preoccupa quel 30%

Fare l’analisi della partita di Verona diventa riduttivo in queste condizioni, perché gli errori sono gli stessi e non si apprezza traccia di miglioramento da una partita all’altra. Ad aggravare poi la situazione arrivano le parole nel postpartita dell’allenatore, che vede contesti chiari solo a lui e sembra quasi stupirsi della sorpresa diffusa sui volti degli interlocutori. Su una cosa, peraltro, ha ragione. La Roma prova a dominare le partite ma poi si deve scontrare con una dura realtà: se nelle ultime due trasferte tu controlli il gioco per il 70% del tempo e torni a casa con otto gol sul groppone come non si può considerare paradossale continuare a sentir dire che si è giocata una grande partita che deve dare grande fiducia nel futuro? E come è possibile non capire che è molto preoccupante subire tante occasioni da rete nel restante 30% del tempo di gioco? Oltretutto il futuro è rappresentato da avversari che sembrano al di sopra della portata della squadra giallorossa, si tratta di Bologna, Napoli e Atalanta, peraltro con l’intermezzo delle partite di coppa di Bruxelles con l’Union St.Gilloise e di Londra con il Tottenham da non sbagliare perché rappresenteranno presumibilmente i punti di ancoraggio per restare tra le squadre che da febbraio si giocheranno l’Europa League nella fase ad eliminazione diretta e quindi l’ultima vera occasione di soddisfazione agonistica per un popolo distrutto nell’anima e nei sentimenti come quello romanista. Come si può essere ottimisti?

Altri cambi tattici

Anche a Verona Juric era partito con gli accoppiamenti stabiliti sulla carta che si sono poi rivelati controproducenti: Celik altissimo su Bradaric, Le Fée quasi difensore centrale su Kastanos, Mancini spostato da terzino destro a guardia di Lazovic, distanze enormi nel reparto difensivo, tutto in nome di un congegno tattico che Gasperini ha elevato a modello universitario e che però non viene applicato in nessuna squadra del mondo (tranne appunto in qualche laboratorio di gasperiniana influenza, proprio per la sua complicatissima adattabilità). Da una parte c’è uno che ha costruito negli anni (otto, ormai) una struttura sempre più rifinita di corpulenti robot sulle cui strutture muscolari si lavora con scientifica applicazione, sopportando peraltro con disinvoltura diversi momenti di rigetto grazie alla sostanziale serenità di un ambiente completamente diverso rispetto a quello romanista. Qui invece Juric è entrato con la scimitarra a piegare una squadra (già frastornata di suo) alle esigenze di un sistema evidentemente indigeribile. E preoccupa molto sentire il tecnico alla fine della partita sostenere come invece questa squadra questa filosofia di gioco ce l’abbia proprio nel sangue. Chiaro ed evidente, come abbiamo titolato ieri, che la situazione non sia più sostenibile. Le partite della Roma non hanno niente a che vedere con quelle dell’Atalanta - nei periodi almeno in cui Atalanta funziona bene: curiosamente, funziona per larghi periodi, con momenti stagionali di appannamento in cui diventa fragile come la Roma oggi. L’opposizione agli avversari funziona nel 70/80% delle loro azioni. Sembra tanto, se il restante 20/30% fosse di normali contrapposizioni a difesa schierata. Il problema è che quando le altre squadre attaccano trovano varchi enormi nei quali infilarsi e la Roma appare letteralmente senza difesa. Come considerarla ogni volta una fatalità? Non guardare in faccia la realtà a questo punto rischia di diventare imperdonabile. Così come sarebbe imperdonabile continuare a pretendere da una squadra inadatta a certe modalità dinamiche di difendere alzando così tanto le pressioni, fino a concedere alle spalle 50-60 o 70 metri di campo da coprire al massimo della velocità. È un errore nel quale era già caduto De Rossi, peraltro. E stava studiando dei correttivi.

Tutti dominano tutti?

Forse una riflessione va fatta proprio in senso generale per le valutazioni delle squadre del calcio moderno. Da quando Guardiola ha tracciato l’esempio - ma sono passati ormai 15 anni dalla prima esibizione di quel meraviglioso Barcellona - tutti gli allenatori del mondo di qualsiasi categoria anelano di guidare una squadra dominante in grado di comandare il gioco, di strappare il pallone agli avversari in ogni zona del campo e disegnare tante azioni da gol. Ma se oggi, più o meno, lo vogliono fare tutti come la si può più teorizzare? Ecco allora che nell’evoluzione del dibattito calcistico sarebbe opportuno per molti allenatori considerare che non tutte le partite si possono dominare, che un atteggiamento prudente è magari propedeutico alla costruzione di una mentalità vincente che duri nel tempo. Se una squadra per scelta strategica ti attende basso (senza fare lo speculativo catenaccio di una volta) per sfruttare poi la tua fragilità nelle transizioni può sorgere il dubbio ad un osservatore neutrale quando deve capire chi tra i due tecnici abbia la mentalità migliore. Tanto poi trovare un episodio a cui appellarsi per giustificare una sconfitta è sempre l’esercizio più facile del mondo.

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