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Dinamo, cuore di Kiev fra guerra e (poca) pace

Il club ucraino è stato per anni simbolo del calcio sovietico. I suoi tifosi sono ora in prima linea contro l’ex madre Russia

(GETTY IMAGES)

PUBBLICATO DA Fabrizio Pastore
24 Ottobre 2024 - 08:00

Pensi alla Dinamo Kiev e subito ti viene in mente il colonnello Lobanovskyi. Associazione di idee che trova fondamento nella lunghissima militanza dell’uomo che più di chiunque altro ha incarnato il nome del club, prima da giocatore e poi da allenatore, riuscendo a portare a casa la bellezza di 31 trofei in 23 anni di panchina. Una serie di trionfi che ha dell’incredibile, a partire da quelli europei, mai più replicati dopo il suo ritiro. Talmente incredibile che il “Colonnello” a un certo punto è diventato uomo-simbolo non soltanto della squadra ucraina, ma di tutto il calcio sovietico, arrivando a guidare la nazionale dell’Urss e portandola a sfiorare un titolo europeo a un passo dalla caduta del Muro (1988, sconfitta in finale dall’Olanda di Van Basten e Gullit). Una scelta del regime dunque, stridente oggi più che mai con la stretta attualità: un ucraino a rappresentare il regime – quindi Mosca – e il fiore all’occhiello della sua infinita lotta meta-politica contro l’Occidente: lo sport.

È nella stessa ottica che nel 1927 nasce anche a Kiev la Dinamo, ovvero la squadra della polizia sovietica, proprio come nella capitale dell’Unione o a Tbilisi, tutte sotto l’egida diretta dei comandanti locali del Kgb. Nell’Europa dell’Ovest il football sta già diventando uno straordinario veicolo di coinvolgimento popolare e i sistemi autoritari in ascesa cominciano a utilizzarlo come strumento di propaganda. Sono ancora lontani però i tempi del professionismo, più che mai in Urss, dove tutto è nazionalizzato. All’eccezione non sfuggono di certo le squadre di calcio, caratterizzate dall’appartenenza all’apparato di stato: i vari Cska sono espressione dell’esercito, le Lokomotiv dei dipendenti delle ferrovie, le Torpedo di determinate fabbriche.

Le ombre si addensano

Il 23 agosto 1939 viene siglato il Patto Ribbentrop – Molotov, ovvero un accordo di non belligeranza fra i ministri degli esteri di Hitler e Stalin, completato da protocolli tramite i quali i due dittatori definiscono le sfere di influenza delle rispettive mire espansionistiche. Il confine fra le due zone è fissato in Lituania, ma quanto messo nero su bianco viene violato meno di due anni dopo dalla cosiddetta Operazione Barbarossa. 
Il 22 giugno 1941 è fissata l’inaugurazione dello stadio di Kiev, dove è in programma la sfida fra Dinamo e Cska, ma quello stesso giorno la Wermacht entra in Bielorussia e in Ucraina: la sfida ovviamente non si gioca e appena tre mesi dopo, l’occupazione tedesca è compiuta. In città le partite diventano ricordi sempre più sfumati. I calciatori sono considerati nemici del Reich e costretti a vivere di espedienti. Il fortissimo portiere della Dinamo Trusevich viene però assunto nel panificio diretto dal cecoslovacco Iosif Kordik, grande appassionato di calcio, che cerca di far rifugiare in quel modo anche gli altri compagni dell’ex numero 1. La ricerca dà i suoi frutti: fra forni e farina si annidano i migliori talenti del calcio ucraino. Così, quando i tedeschi decidono di organizzare un torneo per rianimare la sfera di cuoio e il morale delle proprie truppe, Kordik non si lascia sfuggire l’occasione e mette insieme una squadra formata da otto calciatori della Dinamo e tre della Lokomotiv: la FC Start.

Come in un film

Al campionato partecipano sei formazioni, quattro riconducibili agli occupanti (anche ungheresi e rumeni), una di loro fiancheggiatori locali, la Ruch. E la Start. I fornai rifilano goleade a ogni avversario e iniziano a diventare simboli della resistenza silenziosa. Tanto da indurre gli organizzatori a spostare le gare in campi con minore capienza di pubblico. Ma il match contro i tedeschi si rivela a senso unico e termina con un umiliante 5-1. Un affronto che i nazisti non possono accettare: la rivincita è fissata il 9 agosto 1942. Nel frattempo vengono convocati i migliori calciatori in forza all’esercito, la macchina della propaganda viene messa in moto per dare risalto alla sfida, perfino l’arbitro è tedesco. Quanto accade in campo e sugli spalti segue il labile confine fra storia e leggenda. Dalle minacce di un ufficiale delle SS nell’intervallo del match (sul 3-1 per gli ucraini) alle intimidazioni di soldati armati nei confronti del pubblico di casa, il racconto offre la versione epica che ispirerà il celeberrimo film di John HustonFuga per la vittoria”, ma anche una trasposizione decisamente più morbida. 

Quello che pare mettere tutti d’accordo è l’andamento della cosiddetta “Partita della morte”, riportata sul 3-3 nella ripresa, per poi terminare 5-3 per i fornai. E soprattutto l’episodio finale: Klimenko salta l’intera difesa tedesca, portiere compreso, ma sulla linea di porta anziché segnare si volta sprezzante verso le autorità naziste in tribuna prima di calciare via il pallone. È la fine. In ogni senso. La sequenza temporale non lascia certezze su eventuali rappresaglie. Sta di fatto che molti di quei calciatori finiscono nei campi di concentramento, altri muoiono trucidati, Goncharenko e Sviridovskiy riescono a fuggire, salvo poi essere accusati dai sovietici di essersi “imboscati” grazie al calcio. Passeranno molti anni perché quell’atto di eroismo sia ricordato: è il 1981 (anno di realizzazione della pellicola con Michael Caine, Stallone e Pelé) quando lo Stadio Zenit viene ribattezzato Stadio Start.

Sul ponte sventola Bandera

Dopo oltre 70 anni da quella leggendaria partita, l’Ucraina è un Paese libero e indipendente. O quasi. Nell’autunno 2013 il popolo chiede a gran voce la stipula degli accordi con l’Unione Europea per risollevare le sorti dell’economia nazionale e compiere un ulteriore passo verso la democrazia. A novembre il premier filorusso Janukovic disattende le promesse, causando le prime proteste di Maidan Nezalezhnosti (letteralmente Piazza dell’Indipendenza). I primi a darsi appuntamento al centro di Kiev sono gli studenti: si tratta di una manifestazione pacifica, nella quale convergono decine di migliaia di persone. A conferirle un tratto differente pensa però la Berkut, il famigerato reparto anti-sommossa della polizia, che attacca i manifestanti, creando panico e lasciando giovani feriti sull’asfalto. È la miccia che innesca la rivolta. Da quel momento e per 93 giorni consecutivi Maidan diventa sinonimo di ribellione di piazza. Il cuore della capitale è teatro di scontri sanguinosi che ben presto salgono di livello, trasformandosi in vera e propria guerriglia urbana. La Berkut individua un nemico in chiunque sia in strada e colpisce civili, medici, operatori della Croce Rossa, fotografi, giornalisti, perfino sacerdoti. Senza fare sconti a donne e bambini. Il clima si inasprisce sempre di più, le barricate delimitano i confini fra i palazzi della politica e la protesta. L’esasperazione però non piega i manifestanti, che raggiungono numeri impressionanti. 

Il 21 gennaio 2014 la battaglia prende una piega inattesa per la Berkut, che viene fronteggiata e attaccata: in prima linea ci sono le frange più estreme dei tifosi della Dinamo Kiev, che cinque giorni dopo sottoscrivono un documento congiunto con gli ultras delle altre squadre ucraine. È una sorta di patto di non-belligeranza: niente più scontri, ma fronte unico contro il nemico comune. I primi a farsi vedere sui ponti della capitale sono quelli del Dnipro. Dell’accordo fa parte anche la tifoseria del Karpaty Lviv di Leopoli, considerata vicina a Svoboda (la principale forza nazionalista del Paese) e promotrice di una simbologia che richiama la controversa figura di Stepan Bandera. Lo storico leader dell’Oun, braccato per anni dal Mossad e dai servizi segreti di mezza Europa - prima di essere trovato morto per un misterioso avvelenamento - è oggi visto come fiancheggiatore nazista durante la Seconda Guerra Mondiale; o come promotore di un’Ucraina indipendente, a seconda delle posizioni. 

Sta di fatto che accanto al giallo-azzurro dell’Ucraina iniziano ad apparire in piazza le bandiere rosso-nere, colori riconducibili all’Oun. Da Mosca Putin cerca una giustificazione alle azioni del premier alleato, lanciando l’allarme sulle presunte organizzazioni neo-naziste a capo della rivolta, mentre Maidan è preda di scontri fra i tifosi della Dinamo e i Titushki, milizia mercenaria al soldo di Janukovic. La fine delle ostilità arriva soltanto il 22 febbraio con la fuga del capo di stato in Russia, ma dopo la morte di 103 manifestanti e 13 poliziotti. Eppure quei giorni sanguinosi non sono ancora finiti, come è noto. La guerra civile ha soltanto fatto posto a quella contro il vicino più temibile. E come ogni altro ucraino, anche il mondo intorno alla Dinamo Kiev attende la pace. Ancora una volta.

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