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Athletic Club, la storia dei più identitari d'Europa

Da oltre un secolo in simbiosi col proprio popolo. Fra le tre squadre più titolate di Spagna e mai retrocesse, ma sempre con giocatori fatti in casa

(GETTY IMAGES)

PUBBLICATO DA Fabrizio Pastore
26 Settembre 2024 - 16:09

Utopie e sport difficilmente vanno a braccetto. Se e quando ci riescono, il sodalizio dura poco. Eppure c’è chi riesce a coltivare da oltre un secolo l’ideale di una squadra composta da giocatori-tifosi, nati o cresciuti “in casa”. Con risultati (quasi sempre) felici e senza (o quasi) deroghe ai principi originari. Succede a Bilbao, dal 1898 sede dell’Athletic Club. Attenzione: non Atletico, ma rigorosamente Athletic, all’inglese, in omaggio alla decisiva influenza britannica nella fondazione di una delle società più antiche di Spagna. Il primato in questione spetta al Recreativo Huelva, sempre grazie a marinai sbarcati da navi battenti Union Jack. Ma a differenza degli andalusi - mai ai vertici del panorama calcistico nazionale - in Biscaglia hanno iniziato a fare sul serio col pallone fin dall’era pionieristica. Fino a diventare, coi colossi Barcellona e Real Madrid, una delle tre formazioni mai retrocesse, oltre che più titolate del Paese. Grazie al decisivo apporto di chi il football lo ha inventato.

Da Global a Local

Più che di colonizzazione, la diffusione della “pedata” a Bilbao è frutto di interazione culturale. La città basca già alla fine del diciannovesimo secolo vive di un fiorente commercio marittimo ed è uno dei maggiori centri di produzione dell’acciaio. Il tenore di vita è mediamente alto e i rampolli delle famiglie più facoltose vanno a perfezionare gli studi Oltremanica. Dalla stessa Inghilterra il porto bilbaino è il primo scalo di un certo rilievo verso la penisola iberica. E il continuo viavai in entrambe le direzioni non può che favorire la diffusione di quello che da lì a breve diventerà lo sport più popolare del pianeta. Sul suolo basco i veterani provenienti da Nord sono costretti a praticarlo in strada, dove attirano la curiosità degli autoctoni. La commistione dà vita al Bilbao Football Club e poi all’Athletic: il primo formato quasi esclusivamente dai maestri britannici; il secondo da un mix di locali e inglesi, questi ultimi così radicati in Biscaglia da scegliere frequentemente di stabilirsi lì. 

Nel 1902 le due squadre, stanche di sfidarsi fra loro, danno vita a una selezione comune, denominata Team Bizcaya, per affrontare il primo trofeo a carattere nazionale, la Coppa dell’Inconorazione, vinta a Madrid. È il primo di una serie di trofei conquistati agli albori: ben quattro nella prima decade del Novecento. Sull’onda dei successi, il calcio a Bilbao acquista rapidamente popolarità, coinvolgendo anche i ragazzi più piccoli, non decenni dopo ma quasi nell’immediato. Fattore decisivo nello sviluppo della vocazione identitaria dell’Athletic.

L’altro elemento determinante è più frutto del caso che di una scelta ponderata: nella turbolenta edizione della Coppa nazionale (antesignana della Liga) del 1911, allargata a 12 squadre, viene limitato l’utilizzo di giocatori inglesi ai soli residenti in Spagna da almeno sei mesi. A trionfare sono ancora i biscaglini, ma dopo la squalifica della Real Sociedad e una serie di rocamboleschi ritiri e ricorsi, fino alla revoca del trofeo e alla scissione della Federazione, ispirata proprio dalle proteste arrivate da Bilbao. Scisma poi rientrato con la restituzione della coppa. Dopo un biennio di tira e molla, per evitare ulteriori problemi, nel 1913 l’Athletic per la prima volta presenta una squadra formata interamente da baschi, meglio ancora se biscaglini. Fra loro c’è il giovanissimo Rafael Moreno Aranzadi, figlio dell’ex sindaco della città e nipote dell’intellettuale Miguel de Unamuno, soprannominato “Pichichi” nelle partitelle giocate da ragazzino contro i più grandi e autore del primo gol nel neonato San Mames, proto-stadio di Bilbao che presto diventerà per tutti la Catedral. Pichichi scompare a soli 30 anni, e come molti eroi dello sport andati via prematuramente, diventa  leggenda, fino ad essere onorato postumo dal quotidiano Marca con l’intitolazione del trofeo attribuito al capocannoniere di Liga. È lui il primo di una lunga serie di campioni nati e cresciuti in casa.

Autorivelazione

All’epoca nessuno può immaginarlo, ma quella svolta identitaria inaugurata dalla contingenza diventerà perpetua. Da necessità a scelta a tratto distintivo. I baschi rappresentano indiscutibilmente l’avanguardia calcistica della Spagna nell’era che precede il professionismo e la creazione di un vero e proprio campionato nazionale: oltre all’Athletic (che vanta già diverse filiali e i cui tifosi trasferiti a Madrid hanno fondato l’omonima squadra della capitale), si fa strada la Real Sociedad di San Sebastian; mentre il redivivo Bilbao FC,  l’Arenas di Guecho, il Racing e lo Sporting di Irun, fanno da apripista alle successive Osasuna e Alaves. Le sette province di Euskal Herria sono feconde di squadre e calciatori, ben oltre quello che suggerirebbe il territorio relativamente limitato. Eppure all’inizio tutti i club attingono dal proprio territorio, creando forte concorrenza in una zona nemmeno particolarmente popolata (attualmente da poco più di due milioni di persone). Le sole eccezioni alla regola autarchica si vedono in panchina, dove le attenzioni sono ancora rivolte ai maestri inglesi, antesignani anche fra gli allenatori. A Bilbao sbarca Garbutt, reduce dalla pluriennale esperienza italiana e primo tecnico della Roma. 

L’Athletic fa incetta di titoli nella neonata Liga, riuscendo a centrare il doblete campionato-coppa tre volte in poco più di un decennio. Ma la Guerra Civile si abbatte come una scure anche sul calcio, in particolare quello dei Paesi Baschi, dove il franchismo ha trovato l’opposizione più dura e convinta. Il criterio di scelta dei calciatori continua a essere lo stesso di sempre: nati in Euskal Herria; o cresciuti nei settori giovanili della zona, ma di provata fede verso i colori rojiblancos. Tifosi in campo, pronti a dare tutto specialmente in anni ostili, anche se fiaccati dalle persecuzioni del regime e dall’esilio. In quegli anni difficili la diaspora viene combattuta con la composizione di una nazionale basca fuori confine, che gioca sopratutto in Sudamerica: Zubieta si trasferisce al San Lorenzo, in Argentina, diventandone addirittura capitano (e forse ispirando il trasferimento allo stesso club nell’estate 2024 della bandiera Muniain, secondo di sempre per presenze, in pieno stile derossiano). L’ispanizzazione  franchista dei nomi stranieri impone al club la mai digerita dicitura “Atletico”.

Ma l’orgoglio e il senso di appartenenza basco portano altri trionfi nel quindicennio che va dal 1943 alla seconda parte degli Anni 50, col marchio decisivo della Delantera Magica e in particolare del bomber Zarra, sei volte capocannoniere. Il titolo più significativo arriva probabilmente nel ‘58, quando quelli che un giornale bilbaino aveva definito «gli 11 compaesani» piegano in finale di Coppa il Real Madrid – nella sua tana di Chamartin - fresco vincitore della terza Coppa Campioni consecutiva e ambasciatore indiretto della politica di Franco, appena accreditato come interlocutore credibile dalla comunità internazionale. È proprio uno stizzito Generalissimo a consegnare il trofeo nelle mani di capitan Gainza. «Ellos tienen la cartera, nosotros la cantera» («Loro hanno il portafogli, noi il vivaio»), recita un adeguatissimo slogan dei tifosi bilbaini. Il successo viene accolto come un trionfo politico. L’ostracismo del regime regala ulteriore linfa, se possibile, al localismo basco. Che prosegue anche nel decennio successivo, sia pure avaro di risultati prestigiosi.

Oltre l’orticello

All’indomani della morte di Franco ma a democrazia non ancora ripristinata, l’Athletic (che intanto ha ripristinato la denominazione originaria) è protagonista di un gesto fortemente simbolico insieme all’altra squadra basca, la Real Sociedad: i capitani Iribar e Kortabarria scendono in campo nella sfida di San Sebastian portando insieme l’ikurriña, la bandiera di Euskal Herria proibita dal regime. La rivalità fra le due squadre, sia pure accesa agli albori (i calciatori biscaglini furono oggetto di sassaiola da parte dei tifosi guipuzcoini dopo il primo derby), ha col tempo ceduto il passo a un comune senso di appartenenza territoriale. A inizio Anni 80 i due club si succedono nell’albo d’oro della Liga per 4 stagioni consecutive vincendone due a testa: l’Athletic torna al successo nel 1982-83 dopo decenni di digiuno (esattamente come la Roma), accolto da un milione di persone in tripudio lungo le rias – in una città di 350mila abitanti – nell’epica traversata dal Nervion al mar Cantabrico a bordo della Gabarra (la tradizionale chiatta). Entrambe le squadre hanno la possibilità di sgambettare i rivali all’ultima giornata, ma l’atteggiamento reciproco è più che morbido. Il primato del territorio basco conta più della rivalità cittadina.

Nel 2020 biancorossi e biancoblù si contendono in finale la Copa del Rey, ma con lo scoppio della pandemia il match si dovrebbe disputare senza i rispettivi sostenitori. Le due società non ci stanno e chiedono congiuntamente a Federazione e Uefa di giocare in data da destinarsi, a costo di perdere l’accesso alle competizioni europee. La gara verrà disputata un anno dopo rispetto a quanto previsto inizialmente, senza piegarsi alla logica degli incontri ravvicinati del terzo tifo in voga nel periodo: le partite prive di coloro per cui si giocano. Non potrebbe essere altrimenti da quelle parti. Nella scelta condivisa da entrambe le squadre c’è tutto lo spirito comunitario di Euskal Herria. Quello marchiato a fuoco nello statuto bilbaino, all’articolo 14: «La sovranità e il governo del club spettano ai soci». 

Antidoto al calcio moderno

Il percorso netto dell’Athletic nella sua fedeltà al progetto autarchico in oltre un secolo non è risultato immune da ostacoli, né da tentativi di infrangerne la purezza. Inevitabile soprattutto nel calcio del dopo-Bosman, dei diritti televisivi come fonte primaria di sostentamento delle società e delle multinazionali a capo dei club. Eppure ancora nel 2010 gli oltre 30mila soci sono stati chiamati a una sorta di referendum per contemplare la possibilità di tesserare giocatori stranieri: ha vinto il “no” col 93% dei voti. Un’eccezione è stata successivamente riservata agli oriundi di prima generazione (con genitori baschi), purché tifosi accertati. Nello stesso periodo per la prima volta la maglia biancorossa è stata “sporcata” da main sponsor, ammessi però soltanto se marchi di aziende basche, come l’attuale Kutxabank. Anche la Catedral nel 2013 ha ceduto il passo al nuovo stadio San Mames, più grande, moderno e funzionale, che sarà sede della prossima finale di Europa League

Si tratta di qualche piccolo e parziale strappo alle regole ferree che hanno reso l’Athletic non solo l’orgoglioso simbolo di un popolo, ma anche un rifugio per tutti gli appassionati del calcio che fu, delusi dall’attuale deriva ultra-affaristica di un meraviglioso sport. Come sia stato possibile rendere tanto longeva e fedele a se stessa una storia simile, resta un mistero esclusivamente per chi ancora pensa che «sia solo un gioco» e non il più grande fenomeno socio-culturale di massa dell’ultimo secolo e mezzo. Così l’utopia basca riesce a esercitare fascino perfino sugli avversari. Che però mirano pur sempre a batterli.

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