L'infinità del giorno più bello
24 ore (e più) in preda a ogni genere di emozioni Mentre scorrevano, si è fermato proprio tutto. Per sempre
Come fai a spiegare l’immensità di quel giorno? Chi c’era sa. Il marchio è talmente profondo da non sparire mai. Nemmeno l’usura del tempo può scolorirlo. Altro che tatuaggio su pelle: è fuoco dentro che non smette di ardere. Ventitré anni e mezzo sono un’eternità, di più ancora se rapportati al calcio. Eppure sono un battito di ciglia nella sfera emotiva: stanno là a ricordarti chi sei e da dove vieni, anche se oggi sembra tutto maledettamente lontano.
Chi non c’era pure sa. Dai racconti dei padri, dalle immagini, dall’esplosione di gioia che ha lasciato la sua eco intatta. Ventitré anni e mezzo sono una generazione intera, di chi non ha vissuto in presa diretta quella felicità, ma sa esattamente dove si trovava chi gli ha tramandato la suggestione e cosa faceva nell’attimo esatto in cui lo faceva. Raro ma non unico caso di trasposizione temporale romanista, da un’anima all’altra. D’altra parte l’epopea di Testaccio; l’orgoglio dell’anno di purgatorio; le prime coppe alzate da Losi; il Commando; Falcao e Di Bartolomei; De Rossi e Totti e tutti gli altri, appartengono a ogni tifoso, non solo a chi ha vissuto le rispettive fasi.
E allora come fai a spiegare il 17 giugno 2001? Ti affidi alla memoria individuale: particolare più, particolare meno, coincide con quella collettiva. Cambiano i nomi di chi ha accompagnato ognuno di noi, non il tumulto interiore condiviso.
Le 23.59 di sabato 16 somigliano a queste ore pre-natalizie. Tutti di corsa per cercare di sistemare le ultime cose. Sono stati sentiti familiari e amici - anche se la tensione che divora tutto consiglierebbe di rimanere soli - si è organizzato ogni singolo dettaglio della giornata che sta per cominciare. Sai che un minuto dopo si entra nella Storia, in un modo o nell’altro (in uno, l’altro è un maledetto imbucato che devi scacciare). Cerchi di distrarti ma a chi prendi in giro, sei tu a girare nervosamente su te stesso e sai che se avessi una centrale elettrica accanto ti basterebbe toccarla per illuminare a giorno l’intera città. Resti in giro per ingannare un tempo che non vuole saperne di scorrere. E anche quando si decide a passare, il sonno è lontanissimo, non ci pensa proprio a venire da te.
Tic-tac, tic-tac, tic-tac. La sveglia. O il cuore. Forse una bomba. In quel momento tutto si confonde e distinguere i suoni è un’impresa. L’intensità crescente del ticchettio suggerisce che è sul punto di deflagrare, qualsiasi cosa sia. Allora ti guardi intorno e realizzi che col soffitto di fronte a te non puoi che essere steso. Anche se hai già gli occhi sbarrati e non la consueta palpebra a mezz’asta della mattina. Sudori freddi. Vuoi vedere che...? Sei già pronto a imprecare contro sveglia e udito e sonno pesante, quando le lancette catturano lo sguardo. Un quarto alle sette. Possibile? La notte e il giorno fanno staffetta al contrario. Stavolta si sono aggrovigliati. E la cognizione del tempo è una sconosciuta. Meno di un’ora e mezza di sonno alle spalle dovrebbe farmi barcollare. Invece è tutta adrenalina. Mista a caos. Vorrei dire a Palahniuk che il suo Tyler Durden è un dilettante.
Tic-tac, tic-tac. Alle 8.20 citofona Massimo. La puntualità fatta persona è in anticipo. Forse per abitudine ai miei cronici ritardi, più probabilmente perché l’ansia divora anche lui. Deve attendere meno di un minuto però (“ritardo” è un parola cancellata per una volta da vocabolario) e appena spalanco il portone mi rendo conto che i nostri livelli di tensione corrono sullo stesso filo, testa a testa. Siamo muti, basta un cenno per capire che il percorso fino allo stadio non avrà sottofondo, se non quello del motore sotto sforzo del mio scooter scalcinato del periodo. Massimo è anche il suo peso, ma glielo devo: abitiamo vicini, non vuole infilarsi in auto in un giorno del genere e mi ha scarrozzato per l’Italia nelle mille trasferte vissute fianco a fianco.
Elettricità e silenzi nostri fanno il paio con quelli della città. Ma Roma non dorme. Aspetta. E freme. Si avverte nell’aria già bollente. Nel tragitto ho modo di ripensare a qualche ora prima, quelle senza cesura fra sabato e domenica. «Domani è il Gran Giorno, eh?». La domanda rimbomba, come ripetuta un milione di volte. Un milione di volte credo di averla ascoltata, accompagnata da tutti i gesti apotropaici del caso. La scaramanzia non mi appartiene, ma sento che il mantra mainagioista si sta pericolosamente facendo largo. Le certezze di un girone fa si sono sgretolate, gli abbracci rotolanti per dieci file sugli spalti del Delle Alpi di appena un mese prima sembrano dissolti. Tutto congiura per tramutare l’eccitazione in maledetta inquietudine: i mezzi passi falsi con Milan e Napoli, la Juve a un tiro di schioppo, la classifica che ci tiene alla portata perfino di quegli altri. E poi la squadra che sembra arrancare, le scintille fra Mister e Montella, Bati più d’inerzia che di forza, i corridori con la spia della riserva accesa. Mi appello all’altare del Dieci, mentre si fa strada un tormento (un altro): a quante persone devo le scuse per le rispostacce delle ore precedenti? Gli amici, la ragazza, perfino i miei. Il fuoco è già divampato, la vocazione non è da pompiere. Ora meno che mai.
Tic-tac, tic-tac. Alle 9 davanti all’ex ostello ci sono tutti: Michele, Tommaso, Carlo, Cristina, Ezio, Davide, Lidia. Bottiglie di Borghetti e stecche di sigarette (entrambe già aperte) annunciano il tipo di giornata. «Muoviamoci», è l’unica parola che si sente fra noi. Poi soltanto silenzi, appena sporcati da scintille di accendini e deglutizioni. Viale dei Gladiatori non finisce mai, l’attesa pure. La folla aumenta, i cancelli aprono con due ore d’anticipo (rispetto al previsto eh, non alla partita: per quella manca una vita, anche se a noi sembra un attimo). Entriamo di corsa, nemmeno fossimo a un minuto dal fischio d’inizio, ma il respiro è ancora trafelato quando siamo ormai sbracati da un’ora sui seggiolini.
Tic-tac, tic-tac. Alle 11 la Sud è stracolma. Eppure la gente non smette di arrivare. S’intuisce la quantità inverosimile di persone quando perfino il parterre “sotto campo” in Tevere e gli angoli alti di Monte Mario accanto ai plexiglas non lasciano più spazio a scorci di blu: giusto così, non c’è spazio per colori che non c’entrano nulla con la Capitale. Si vedono soltanto teste. E giallo e rosso. Esattamente come l’affresco dell’atmosfera cittadina lungo quelle strade silenti eppure cariche di tensione: gialle e rosse, di sole e di passione.
Tic-tac, tic-tac. La mezza. All’irrespirabile afa si aggiunge la bolgia. Ormai siamo in due su ogni seggiolino, rigorosamente in piedi, e in mezzo a ogni fila ce n’è un’altra improvvisata. La gamba tambureggia senza sosta. Tutti hanno seguito le indicazioni sul volantino dei gruppi della Curva: una bandiera ciascuno. E il fiato trattenuto il più possibile per quei 90 minuti di possibile eternità. Dalle tribune si alza «Chi non salta...», prontamente stoppato. La Sud ruggisce, lo sventolio oscura il cielo, il mondo trema. Lo fanno anche quelli del Parma (con diversi ex di quegli altri in squadra boriosamente minacciosi nelle ore precedenti) quando testano il prato in giacca e cravatta: assordati dai fischi e da un poderoso «Corete, scappate» che farebbe vacillare anche le orde barbariche. Riacquisto convinzione.
Tic-tac, tic-tac. Ore 14.50. Siamo zuppi: gli idranti hanno provato a rinfrescarci, c’è anche alcol e sudore in quella mistura maleodorante che allontanerebbe perfino le mosche, eppure in quell’attimo profuma di leggenda e ci fa abbracciare noncuranti di tutto. Ci unisce. Ottanta, forse centomila. Ma siamo un corpo unico. La lettura delle formazioni se possibile accresce i decibel, l’inno s’inserisce nella baraonda e il suono diventa un indistinto tambureggiare.
Pochi istanti e le altre già sono in vantaggio. Tutte e due. Ansia. Ma dopo 19 minuti Totti ci fa esplodere. Liberazione. Montella ci alleggerisce prima dell’intervallo, non durante: la tensione risale, la lotta contro noi stessi prosegue. Batistuta sembra mettere fine alle palpitazioni. Confusi nel furore orgiastico, del gol avversario nemmeno ci accorgiamo, ma il sangue si gela quando qualche migliaio “di geni” invade. Fanno incetta di maglie e pantaloncini come fosse finita, si appendono alle traverse, il terrore si mischia a insulti irripetibili: in confronto a noi Capello in quel momento è un uomo sereno e pacato.
Tic-tac, tic-tac. Riconfinati gli invasori sulle piste di atletica, rivestiti in qualche modo i giocatori, si riprende. «Quanto manca?». Smania. Vedo solo bandiere, il cielo si è nascosto, forse in ossequio all’unico duopolio cromatico possibile: lo sventolio è talmente fitto da fare ombra a tutto, mentre gli unici sguardi al campo sono rivolti verso il servizio d’ordine che tiene a bada gli inopportuni. Rabbia. Dura poco, ma sembra un’eternità. E all’improvviso, l’apoteosi.
Piango a dirotto come non mi capitava dai tempi dell’infanzia, abbraccio chiunque. Travolgo e sono travolto. Rido, piango, urlo, salto, mi sdraio. Torno bambino e mi sento adulto, anche se non sono né l’uno né l’altro. Catapultato in un’altra dimensione. Emozioni simili non ne ricordo. Felicità è essere romanista. Il ticchettio si allontana ma lo sento ancora, da piazza del Popolo a Testaccio e in tutta la città impazzita di gioia. Fino alle 7, a 24 ore dalla sveglia. Ora lo so: era il tempo che scorreva fermandosi. Era, è, sarà, l’infinito del 17 giugno 2001. Per chi c’era. E per chi non c’era, ma merita di viverlo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA