Sorrisi e lezioni
Chi vive per la Roma è felice se la vede segnare, vincere, esultare, a prescindere dall'avversario o dalla competizione o dalla posta in palio
Segnali dal tempo. Molto prima dell'avvento degli smartphone, di emoticon, emoji, stickers e tutto l'armamentario irrinunciabile di chi comunica tramite cellulare, esisteva un modo rudimentale di esprimere le proprie sensazioni via messaggio: i due punti e una parentesi, aperta in segno di disappunto e chiusa per qualsiasi stato d'animo positivo. Sic et simpliciter. Un po' quello che è accaduto sui volti dei romanisti, da prima a dopo la partita contro il Lecce: le labbra pendenti in modalità-fermo-immagine hanno ripreso il verso verso l'alto con tre semplici passaggi. La preoccupazione del pre si è tramutata in ansia nel durante e in soddisfazione - sia pure moderata - nel post. Sì, d'accordo, la strada è lunga ed è stato compiuto soltanto il primo passo.
Sì, certo, la classifica continua a fare schifo e insieme a rappresentare fonte di apprensione. Sì, ovvio, il Lecce in casa non è il Real al Bernabeu. Eppure nulla era scontato, tutt'altro dopo un digiuno da quaresima. E ce la meritavamo una sera quantomeno priva di zavorre angoscianti. Trentasette giorni senza sorrisi sono una vita. Nel calcio anche di più. Non è successo nulla che possa far calare il livello di attenzione e da qui fino a Natale ci sono altre quattro prove da superare senza se e senza ma, eppure scorgere sui maxischermi dello stadio o incrociare dal vivo quei volti rilassati, sorridenti, non più tirati per la tensione, è stato come vedere bambini festanti, saltellanti, leggeri.
Anzi, senza “come”: c'erano anche loro. Li abbiamo visti. Manine nelle mani di genitori prima preoccupati che la Roma potesse rovinare l'ennesimo weekend ai propri pargoli, poi felici che la Roma abbia finalmente regalato loro un sabato sereno. Svolazzavano. E noi con loro. Ci siamo tramutati tutti in bambini a fine partita. Abbiamo sorriso, ci siamo scambiati abbracci, si è perfino ripreso a cantare, qualcuno ha immortalato il momento. Esatto, come fosse una finale vinta. Che problema c'è? Nessuno. Perché la gioia va assaporata, ma anche fermata e tramandata. Chissenefrega se è soltanto un successo sul Lecce, che serve appena per iniziare a tirarsi fuori dalle secche. Chi vive per la Roma è felice se la vede segnare, vincere, esultare, a prescindere dall'avversario o dalla competizione o dalla posta in palio (che comunque, per chi l'avesse sottovalutata, era e continua a essere alta).
Basterebbe comprendere quanto influisca sull'umore di ogni singolo tifoso, per avere una guida sicura – ben oltre algoritmi o dirigenti marziali e marziani – su cosa fare e cosa evitare. Una sorta di manuale ideale, che pure fino a qualche tempo fa sembrava capitato (più per caso che per perizia) sulle scrivanie della proprietà. Sembrava, appunto. Perché poi tutto quello che è accaduto in questo scellerato 2024 è andato in senso opposto. Dall'inizio alla fine.
Deve essersene reso conto chi è stato inquadrato per qualche secondo e subissato di fischi. Il ghigno apparso sul viso del rampollo di famiglia è stato a quel punto indefinibile. «Come un soriso, rise, risata, me vie' da ride», anche se in realtà era agli antipodi dei sorrisi che si espandevano fra tutti gli altri 58.212 presenti all'Olimpico. Chissà che non servano da lezione. Sì, anche su come sorridere. E proprio perché la Roma è una cosa seria.
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