Parla Federico Marchetti, l'unico abitante di Tor di Valle: «Non mi lasciate solo qui»
«Allenavo i cavalli ed ero un uomo felice. Nel 2013 ecco l’incubo: impianto chiuso, via acqua e luce»
A scherzarci su e a considerare solo certi parametri, si potrebbe sostenere che è sicuramente un uomo fortunato chi vive in un loft in mezzo al verde, con un parco tutt'intorno a perdita d'occhio, un silenzio rotto solo dagli stormi di rondini che si alzano in volo e una rigidissima vigilanza privata all'ingresso. Federico Marchetti è uomo colto e sofisticato, gli piacciono le donne, ha la lingua svelta e la battuta pronta e un percorso di vita avventuroso. Ma da qualche anno a questa parte ha perso un po' la voglia di scherzare e allora la battuta ce la risparmiamo e restiamo in rispettoso silenzio ad ascoltare una storia da cui si potrebbe tirar fuori un film che avrebbe un solo difetto: nessuno crederebbe davvero a quello che gli si dovrebbe far vedere. Perché lui, 75 anni di età e una dignità invidiabile nonostante il suo unico introito sia una pensione sociale da poco più di 600 euro mensili, è davvero l'unico abitante di Tor di Valle, nel senso che vive sul serio all'interno del controllatissimo recinto dove un giorno, speriamo non troppo lontano, sorgerà lo stadio della Roma.
Lo sanno tutti: lo sa il Comune che al suo indirizzo di residenza dal 2013 non gli fornisce la corrente elettrica e l'acqua, ma gli manda la tassa sulla nettezza urbana («Non so perché: nessun camion è mai venuto qui dentro a far pulizie, io la mia immondizia la porto fuori con una busta e la getto nei cassonetti del quartiere»); lo sa Eurnova, la società di Luca Parnasi proprietaria dell'impianto che nel 2014 gli fece una proposta economica per lasciare in tempi rapidi la zona: «22.000 euro ciascuno, per me e per le altre tre persone che dormivano qui dentro. Tutto sommato una bella cifra, ma è rimasta una promessa mai mantenuta. Un anno dopo sono tornati, con la cifra dimezzata. E sto ancora aspettando»; forse non lo sa solo la Roma perché quando è venuto Pallotta in visita privata le guardie (di Eurnova) hanno chiesto a Federico di non farsi vedere per una mezz'ora: «Sono rimasto chiuso in casa finché non se n'è andato. Mi sono sentito come un animale chiuso in tana. Che fastidio avrei dato?».
A guardarlo viene voglia di abbracciarlo per lo sguardo tenero e il guizzo artistico negli occhi: «Io artista lo ero sul serio. Vieni qui che ti racconto». E allora stiamo ad ascoltarlo mentre parla della sua vita, della Roma («una passione che vivo ogni giorno, grazie soprattutto alle radio romane»), del cane Willie («l'amico più caro che ho»), dei tredici gatti che accudisce («ma li tengo fuori di casa, altrimenti sai che casino») e della vita all'interno degli ex locali del Cral dell'impianto riadattati ad "appartamento".
Cominciamo dall'inizio, allora. Artista in che senso?
«Vengo da una famiglia di artisti, mamma pittrice, mia zia, sua sorella, scrittrice. E io feci prima il Centro sperimentale di Cinematografia e poi l'Accademia d'arte drammatica Silvio D'Amico».
Richiamo artistico?
«Macché, ci andai solo perché era pieno di belle ragazze. Però ero portato, e così alla fine mi sono fatto dieci anni di teatro, prima recitando e poi come regista. Di questi dieci anni, 4 li ho passati in Brasile. Nella scuola di recitazione di via Cavour c'era un gruppo misto italo-brasiliano, si chiamava il Teatro dei Due Mondi, che aveva riferimenti anche in Sudamerica. Così mi chiamarono per uno stage di sei mesi, ma restai 4 anni e diventai anche famoso. Firmai la regia de "I giganti della montagna" di Pirandello, con attori che a San Paolo erano vere e proprie celebrità».
E perché tornò?
«Problemi familiari. Prima di partire mi ero sposato con Marina Fiorentini, la figlia di Fiorenzo, che ebbe seri problemi di salute. Per starle vicino sono tornato e ho speso i miei risparmi. Finì che ci lasciammo e restai senza un soldo. Mi piaceva il mare, così trovai un posticino in affitto nella tenuta di Capocotta, il proprietario era un onorevole socialista. In quel periodo conobbi una donna francese molto affascinante, Danielle, di Grenoble, una pittrice».
Un'altra artista. Un vizio.
«E che vuoi fare. Ma avevamo pochi soldi. Nella tenuta c'era un pony, così copiai un fotografo che sbarcava il lunario facendo foto ai turisti sulla spiaggia con una scimmietta sulla spalla. Io proposi giri in pony e foto. Funzionò. E con quei soldi comprammo un chiosco sulla spiaggia. Amavamo Rimbaud e la sua poesia. Così riadattammo una sua opera famosa, "il Battello Ebbro" e chiamammo il locale "Il Battello Ubriaco". Divenne un bellissimo punto di ritrovo per tutti quelli che avevano voglia di stare in un'oasi naturalistica davanti al mare a bere, mangiare e ballare. Fu un periodo bellissimo, Danielle aveva già un figlio a cui feci da padre e insieme facemmo una figlia tutta nostra. Al termine di una notte magica, tra cielo e lucciole, decidemmo di chiamarla Clio, la dea che annunciava la storia».
Che romantici.
«Ma poi l'amore finì, lei prese Clio e si trasferì in India perché il figlio nel frattempo si era fatto una vita lì con un ristorantino sulla spiaggia. Ora sono tutti lì, a Madras, nella regione del Cennaj. L'hanno chiamato il Battello Ubriaco, proprio come il nostro».
E lei che fece?
«Sentivo un forte richiamo per via del fatto che il più grande cavallo atleta del nostro tempo, Varenne, è cresciuto a Torvajanica, a 500 metri da me. Il mio pony mi aveva fatto avvicinare al mondo dei cavalli e Varenne era una potenza magnetica. Uno capace di vincere due Prix d'Amerique, come se la Roma battesse due volte il Real Madrid in finale di Champions League, un'impresa eccezionale. Sta di fatto che ho un amico in comune con il driver di Varenne, Giampalo Minnucci. Così mi portano un giorno a Tor di Valle e io, artista, regista, giocattolaio, gestore di locali, fotografo, scopro la vera passione della mia vita, i cavalli. A 58 anni».
E come si mantenne?
«Minnucci mi prende a lavorare nella scuderia come tuttofare. I suoi colori erano bianco, giallo e blu, io con la mia esperienza da scenografo teatrale gli ridipinsi tutta la scuderia con questi colori. Prezzo pattuito 4000 euro. 2000 subito, gli altri dopo un po'. Ma io gli chiesi di non darmeli: dammi un cavallo, gli dissi. E lui accettò: mi diede Elegant Mapas. E poi subito dopo arrivò Coss. Una meraviglia: gli cantavo "che Coss sei", come la canzone di Mina. Con i cavalli corro e vinco pure, ma il primo si fa male, mentre Coss era un campione, e con i suoi premi mantenevo anche Elegant che non feci più correre. Avevo paura che si rompesse. Non doveva più correre, proprio come Rocca».
La Roma c'è sempre nei tuoi riferimenti.
«Amo la Roma, è una passione purissima, adoro Totti, gli ho anche scritto, ma non sono riuscito a trovare il modo di fargli consegnare una letterina. Gli avevo fatto un pensiero per il 40° compleanno, ce l'ho ancora qua: un ferro di cavallo con una scritta sopra, Francesco 40».
Roba dello scorso anno. Ma nel frattempo?
«Nel 2013 mi levano il mondo all'improvviso. Via l'ippodromo, via Tor di Valle, via tutti».
I cavalli che fine fanno?
«Era meglio se non mi facevi questa domanda. Quello dell'ippica è anche un mondo crudo. Qui dentro ho visto cose terribili, io sono un animalista, amo gli animali più degli uomini. Quelli che facevano risultati li hanno trasferiti in altri allevamenti, ma quelli che arrivavano dal sesto posto in poi sono andati al macello, per me è stata una cosa terribile».
Federico stavolta piange, non l'ha mai fatto per se stesso, ma il destino di quei cavalli gli si propone come un pensiero insopportabile.
«Ho visto anche altre crudeltà, mi sono pure ribellato, ma non potevo perdere il posto».
Guadagnava bene?
«Avevo una pensione di 448 euro, più tra i 6 e gli 800 euro per il lavoro che svolgevo. Ci campavo dignitosamente. Non potevo perderli».
Quei soldi li ha persi, adesso.
«Sono rimasto solo con la mia pensione, che dopo i 70 anni è aumentata di 190 euro. E con quelli vivo, dal 2013 senza acqua e luce».
Prima diceva che l'offerta di Parsitalia era stata rivolta a lei e altre tre persone.
«Rimanemmo in quattro qui dopo il 2013. Ma uno, Marcello, non ha resistito ed è andato via. Un altro, Beno, un austriaco, è morto di stenti. Leandro c'è ancora, ma io sono l'unico residente. Anzi, a dir la verità anche la figlia del vecchio proprietario, Papalia, ha la residenza qui. Ma io non la vedo...».
E le promesse di Eurnova?
«Un anno dopo sono tornati, ma hanno abbassato l'offerta. Mi avrebbero dato diciotto mesi di pensione, poco più di diecimila euro. Comunque era una cifra importante, non ero nella condizione di dire di no. Provai a contrattare: "Ma se siete costruttori, non potete darmi un tetto invece dei soldi?". Mi dissero no: solo soldi».
E il comune? Non ha diritto a un alloggio?
«Ho presentato la domanda nel 2013, mai avuta risposta».
E allora come finì con i diecimila euro?
«Decisi di accettare. Avevo un mese per andar via. Andai a bloccare un camper, con 200 euro. Mi sarebbe costato l'intera liquidazione, ma ho sempre la pensione. E con un camper, anche a 100 chilometri al giorno, avrei potuto raggiungere mia figlia in India. È il mio sogno. Ma persi i 200 euro di anticipo perché quelli non si sono più fatti sentire. Li sto ancora aspettando».
Ma nessuno si è mai interessato alla sua storia?
«Ricordi quel tour organizzato dalla Roma? Era il 22 febbraio scorso, entrarono una sessantina di giornalisti, io stavo là col cane, si sono avvicinati a me, mi hanno fatto molte domande, io ho raccontato la mia storia, ma forse non gli è piaciuta. Avevo dato a tutti anche un promemoria. Però qualcuno ha scritto un bel pezzo».
Ricorda bene quella data.
«Perché tre giorni dopo dei nomadi mi hanno rubato il motorino e ci hanno fatto una rapina. Io per fortuna avevo fatto la denuncia. Nel frattempo però una persona carina aveva una vespa ferma e me l'ha regalata. Da qui all'esterno sono due chilometri e mezzo. A volte li faccio con Willie per uscire, ma per andare a prendere le taniche dell'acqua ho bisogno di un mezzo».
E riesce a farsi bastare i 600 euro e spicci che prende?
«Sì, sono bravo a fare economia. Al bar di via Cina sono degli angeli,mi fanno credito e ogni mese gli porto la pensione e pago tutto. Anche gli altri abitanti del Torrino sono generosi con me, mi amano tutti».
Come fa a mangiare? Con la radio, la tv, il telefonino? Il riscaldamento d'inverno?
«Basta organizzarsi. Il freddo è pungente, d'inverno. Ma faccio un fuoco come le puttane fuori casa e poi mi porto un po' di brace dentro. Più che altro il problema è l'umidità. All'eta mia mi ammazza. Anche quando non piove, dal tetto scende l'acqua gelata. Ho anche due buchi nel tetto, devo raccogliere l'acqua con una bacinella. E poi ho una stufa: costa 40 euro a ricarica, a volte riesco a risparmiare i soldi per tenerla accesa, riscalda tre metri di casa ma me la faccio bastare. E per mangiare al bar mi fanno credito. Il mio pasto preferito è il minestrone, lo prendo alla Conad e lo mangio così, senza scaldarlo. E tanta frutta. Per fortuna sono vegetariano. Il telefonino è un vecchio modello, non spendo niente, e lo ricarico al bar o presso la security. La radio è a batteria, la tv ovviamente è spenta. Ma se fanno la Roma in chiaro rimedio due euro di benzina e metto in moto il gruppo elettrogeno per vederla. Ma le partite le vedo al bar o in agenzia scomesse».
E i vestiti?
«Qualche conoscente me li regala, ci sto attento, quando puzzano li butto, qualche volta li faccio lavare alla gente del quartiere, cambio spesso con quello che mi danno».
E la Roma?
«Se non ci fosse la Roma impazzirei. Sento sempre Rete Sport, in particolare Sandro e Mauro, e tutta Tele Radio Stereo. Cerco di tenermi informato. In mancanza di donne, purtroppo, mi accontento della Roma. La mia passione. Mi piace il calcio, ci capisco, sai?».
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