Hall of Fame - Alcides Ghiggia, l'uomo che fece piangere il Brasile

Il suo gol al Maracanà nel Mondiale del 1950 resta il più importante della storia. Quando la Federazione uruguayana lo squalificò, la Roma lo portò in Italia

PUBBLICATO DA Luca Pelosi
17 Dicembre 2017 - 16:01

La frase è famosa, roboante, ma per niente eccessiva. «Soltanto tre persone sono riuscite a zittire il Maracanà. Frank Sinatra, Papa Giovanni Paolo II ed io». Io è Alcides Ghiggia, l'uomo che ha segnato il gol più importante e più famoso della storia del calcio. Quello che diede all'Uruguay la vittoria del campionato del mondo del 1950 in Brasile, contro il Brasile. Solo che di fronte a Giovanni Paolo II e Frank Sinatra non c'erano mica più di duecentomila persone. Sì, perché il 16 luglio 1950 Alcides Ghiggia, segnando il gol del 2-1 per l'Uruguay, ha azzittito più di duecentomila persone. Alcides Ghiggia, un campione, l'uomo che ha segnato il gol più importante della storia del calcio, ha giocato 201 partite con la maglia della Roma in Serie A per 8 campionati. Anzi, a dirla tutta, visto che il gol dell'1-1 lo segnò Schiaffino, diciamola tutta: i giocatori che hanno segnato due gol più importanti della storia del calcio hanno giocato entrambi nella Roma. Per poco tempo anche insieme.

La federazione uruguayana lo aveva squalificato per 8 mesi per aver aggredito un guardalinee. E la prima ad approfittarne fu la Roma, che lo prelevò dal Penarol per 45 milioni. Non lo sapeva nessuno, il 31 maggio 1953, quando al Teatro Sistina i soci discutevano animatamente con Renato Sacerdoti spingendo per un rafforzamento. Il presidente a un certo punto prese la parola e disse: «La Roma ha comprato uno dei più grandi fuoriclasse in circolazione». La folla a stento riuscì a trattenere il fiato. Solo un tifoso gridò, interrompendo le parole di Sacerdoti: «Er nome, dicce er nome». E Sacerdoti, maestro nel prolungare l'effetto teatrale: «Il suo nome è uguale a quello del nostro presidente del consiglio». A quel punto, un comunista dalla platea urlò: «Palmiro!» Ma i democristiani presenti capirono subito. «Alcide!», urlò un altro. E Sacerdoti riprese: «Si tratta del campione del mondo Alcide Ghiggia, autore del gol decisivo nella finale dei Mondiali 1950 al Maracanà». D'accordo, non era una finale, ma Alcide Ghiggia era un grande campione.

Aveva iniziato da terzino, poi mezz'ala, poi ala destra. Per la sua presentazione, il 4 giugno 1953, arrivarono 55mila persone. La Roma battè 4-2 il Charlton e lui segnò un gol. Per l'evento venne coniata addirittura una medaglia celebrativa. La società incassò 15 milioni, con i tifosi impazziti di gioia nel poter abbracciare un campione di tale livello. Peppe, mitico magazziniere della Roma ricorda come un debole di Ghiggia fosse legato agli scarpini bullonati. Li voleva tirati a lucido, splendenti. Con quegli scarpini ai piedi ha calcato i campi da gioco come uno dei rari immortali del calcio. Segnò solo 19 gol in Serie A. Uno po' perché in fondo, dopo aver segnato il gol più importante della storia del calcio, non è che puoi fare di meglio. Un po' perché al gol preferiva il passaggio smarcante per un compagno. Una volta calciando un rigore, invece di tirare in porta la passò in avanti a Nyers, altro genio e sregolatezza, che segnò un gol validissimo. Il regolamento infatti non imponeva di tirare per forza in porta e lui se ne approfittò. Dopo una partita vinta 3-1 con l'Alessandria, i compagni dichiararono: «Quando si è messo in moto il campione del mondo, ha vinto la partita da solo». La gente si metteva apposta in tribuna Tevere per vedere le sue finte almeno nel tempo in cui giocava su quella fascia. Se un terzino lo picchiava lui smetteva di giocare per la squadra e iniziava a ridicolizzarlo con i suoi dribbling. Una volta passò almeno 5 minuti nei pressi della bandierina del calcio d'angolo a passarsi la palla con Nyers. Era discontinuo. Ma quando, per contestarlo, gli tirarono una mela, lui la raccolse e se la mangiò. E i fischi diventarono applausi.

«Alcide era uno di quei giocatori che ti restano impressi. Aveva una tecnica particolare, una velocità eccezionale, movimenti rapidissimi che vedi fare dai grandi giocatori di oggi, lui già li faceva. Gli mancava il gol. Arrivava facilmente sul fondo, poi la metteva dietro. Era un grandissimo giocatore». Così lo ha descritto il suo capitano, Giacomo Losi. Ha avuto grandissimi capitani. Come Losi, come Obdulio Varela, che quel giorno al Maracanà dopo il gol del Brasile prese il pallone e camminò lentamente verso il centro del campo, sfidando lo stadio intero e dando una grandissima carica a tutto l'Uruguay. O come Arcadio Venturi, che garantì per lui per farlo giocare. In suo onore chiamò suo figlio Arcadio. Che un po' di tempo fa ha raccontato: «Papà giunse a Roma dopo la guerra, nel momento in cui la società stava risorgendo, e Roma era la massima espressione di questo risorgimento. Era diventato amico di Sordi, Gassman, De Sica e la Lollobrigida. Era il periodo della "Dolce Vita" e un uomo così in vista come lui ne fu conquistato. L'amore per Roma e la Roma fu massimo, ha sempre portato sopra la pelle quella maglia e quella città. Ha sempre respirato l'essenza di Roma, dei suoi tifosi. Amava la gente romana».

Divertente il racconto che ne fa Dino Da Costa: «Era una grande ala destra. E anche un giocatore molto furbo. Lui mi diceva che la cosa più importante era giocare bene le ultime 6-7 partite, non le prime. Perché le prime si dimenticano. Se sbagli l'ultima partita, mi diceva sempre, la gente si ricorda quella. Lui giocava benissimo le ultime 6-7 partite, prendeva tanti applausi e si assicurava il rinnovo del contratto. Era fortissimo».

Con la Roma ha vinto la Coppa delle Fiere. Qualcuno trovò, o creò, un avo italiano e lui giocò anche 5 partite con la Nazionale italiana, senza gloria. Grande campione, autore di giocate di classe eccelsa, ma discontinuo e troppo spesso distratto dalle donne. «A livello caratteriale era particolare – a parlare è ancora Losi - Un tipo strano. Farfallone. Ma un ragazzo di cuore e generoso. Somigliava a Lojacono, che è venuto dopo di lui. Anzi, è venuto che lui ancora c'era, ma poi è rimasto. Altro grande giocatore». Minuto, fragile, busto corto e ingobbito, gambe lunghe e arcuate. Sembrava tutto tranne che un atleta. «Ma una volta in campo – scrisse Sandro Ciotti – l'omino diventava un gigante, tanta era la classe che esibiva, le finezze tecniche con cui infiorava ogni prestazione, i dribbling con cui frastornava i difensori». A volte dribblava un difensore, poi tornava indietro e lo dribblava ancora. Chi l'ha visto giocare se l'è goduto.

Pessimo gestore delle sue finanze, ebbe grossi problemi a fine carriera, ma poi seppe riprendersi. E' tornato a Roma in occasione della festa per gli 80 anni dalla nascita della società e si è emozionato. «Ringrazio di cuore i tifosi e gli esperti che mi hanno scelto nonostante siano passati quasi sessant'anni dalla mia ultima partita con la Roma. Il mio sentito ringraziamento va anche alla Società per l'invito e la volontà di celebrarmi insieme agli altri ex romanisti scelti». Ha detto così quando ha saputo di essere entrato nella Hall of Fame. Non ha fatto in tempo ad esserci per la cerimonia, perché se n'è andato il 16 luglio 2015. Esattamente 65 anni prima, il 16 luglio 1950, aveva segnato il gol più importante della storia del calcio. Già, perché lo dobbiamo ricordare: il gol più importante della storia del calcio lo ha segnato un calciatore della Roma. La sua frase più importante però non è quella su Frank Sinatra e Giovanni Paolo II. Forse è quella che disse in un'intervista al Romanista. «La Roma era la squadra del popolo, la Lazio di qualcuno. La Roma aveva i tifosi, la Lazio no». Firmato Alcide Ghiggia, campione del mondo.

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