La traccia del cuore, da un anno all'altro: dopo Tirana, ecco Budapest
Un anno fa il trionfo in Conference League contro il Feyenoord, tra pochi giorni la finalissima di Europa League con il Siviglia. Una traccia che attraversa il tempo
Un’incisione è per sempre. Quella scritta “As Roma” sulla coppa della prima edizione della Conference League rimarrà per sempre scolpita nella storia del calcio europeo e nei cuori di tutti i tifosi giallorossi. La dimensione internazionale della Roma, un anno fa, ha guadagnato un altro spicchio, per niente piccolo. Un anno dopo, poi, lo possiamo dire: alcuni romanisti, alcuni, inizialmente l’avevano snobbata questa bella coppa che sembra la Coppa UEFA ma non lo era.
Salvo poi, ma li abbiamo accolti con piacere, salire sul pullman scoperto del 26 maggio, quello vero. Quello della festa al Circo Massimo con José Mourinho a regalare baci come un papa e i Friedkin con gli occhiali da sole e i giocatori mezzi nudi e brilli. Festa che ci siamo goduti, ma che abbiamo anche imparato a oltrepassare. Come? È qui la chiave di volta. È qui il percorso che porta il nome e il cognome di un allenatore portoghese che è arrivato poco più di due anni fa. Vincere, godere, riciclare la propria ambizione. Perdere, soffrire, riciclare la propria ambizione. Il calcio è un cerchio dell’hula hoop che si apre e si chiude, bisogna saperlo “indossare” e farlo ballare intorno al bacino.
Vincere aiuta a vincere, si dice. È questa la chiave, è questo lo step che José Mourinho ha contribuito in maniera determinante a far fare a Roma. Questa era ed è la sua mission nel calcio, un po’ più difficile nella Capitale, per mille motivi che in altre sedi si analizzano ogni giorno, o quasi. Step by step, quindi. Senza pensare, per inciso, allo spot che la Roma ha restituito alla competizione. Che oggi è, stranamente, divenuta importante per tutti. Anzi, per quasi tutti.
Altro che una coppetta, poi, volendo, con tutti i mal di pancia che ha causato. Altro che coppetta, poi, se quando ti ci retrocedono fai retromarcia e dichiari di doverla onorare, salvo poi, quando ti buttano fuori anche perché magari non ne sei all’altezza, dire che è meglio vincere una partita di campionato che vale sempre tre punti, invece che l’eternità.
«Roma campione», come suona bene.
Un anno dopo, poi, mancano sei giorni a un appuntamento antistorico per la Roma: un’altra finale europea, quella di Budapest contro il Siviglia. «Quarant’anni per vedere due finali europee, un anno per vederne altre due», dice qualche tifoso attempato. Non è facile governare le emozioni, anche per tutto quello che dal sollevamento di un trofeo conseguirebbe per la Roma. Eppure, per Mou questa è la normale amministrazione. Gestione dell’obiettivo.
E anche se due finali in un anno solare per la Roma sono come una prima volta di tutto, abbiamo anche imparato a trattare l’avvicinarsi della data del 31 maggio (non l’Europa League stessa) un po’ come un secondo figlio. Cioè con il moderatore della sana ansia e dell’adrenalina, con un po’ più di esperienza, abitudine e qualcosa che si avvicina, seppure alla lontanissima, alla leggerezza. Ma, come con i figli, sebbene possano esistere caratteri e feeling diversi, non si può voler più bene a una finale che a un’altra. Perché il cuore non si divide, si moltiplica
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