La lettera scarlatta
Il messaggio di Zaniolo tiene banco prima del fischio d’inizio. «Ne sappiamo più del Bournemouth che della Cremonese»: infatti arriva la batosta
La domanda, per noi che arriviamo allo stadio, giunge inaspettata: «Ahó, hai sentito che Zaniolo ha scritto ’na lettera?». Ma, prima di capire cosa sia ’sta storia de ’sta lettera, se esista veramente, se parli di un pessimo addio o di un nuovo inizio, arriva la risposta: «Perché, sa scrive?». E lì, in quelle tre parole, c’è tutto. C’è un amore finito. C’è la voglia di girare subito pagina. C’è il bisogno di cancellare tutti i ricordi. È come quando lei, parlandoti a mezza bocca, ti dice che deve andare perché c’è altro nella sua vita. Non sapendo che, con quelle parole, non sta solo cambiando il tuo futuro, ma sta riscrivendo anche il tuo passato. Perché non accetti l’idea di quello che è stato. Vorresti aver dato meno, avere creduto meno, avere sognato meno. Ed allora inizi a togliere, non ad aggiungere. E torni a casa, fai sparire ogni foto, cancelli i messaggi. Dimentichi. O meglio, provi a dimenticare. Perché, si sa, non si dimentica. E allora ti rendi conto che in quelle tre parole, in quel paradossale «Perché, sa scrive?», non c’è l’indifferenza di chi è già oltre, ma, al contrario, la sofferenza di chi ancora non sa farsene una ragione. Di chi, girandosi nel letto, non ci dorme la notte. È così. È questo. E, purtroppo, non è niente di meno. E quel silenzio della Curva, che mai pronuncia il suo nome, non deve essere letto come indifferenza (ma quando mai) ma come la paura che sia la propria stessa voce a dare la misura di ciò che è. Perché la verità è che vorresti che tutto questo non fosse mai successo. Che fosse stato solo un brutto sogno. Perché stasera lo vorresti lì, su quella fascia, a fare a spallate con questo e quello. Ed è per questo che fai finta di essere indifferente.
E quando Tahirovic, trovato da Cristante libero sul palo opposto, «la prende troppo bene», si può tranquillamente riprendere a parlare di quello che è stato e di quello che sarà, perché questo è quello che a noi interessa, perché questo quarto di finale, malgrado un buon movimento in campo e un buon possesso palla della Cremonese, sembra comunque di facile soluzione. Il problema è che, appena Kumbulla sbaglia quello che un difensore non può e non deve mai sbagliare, qualcuno riporta tutti alla realtà, ricordando che, mentre i giorni passavano e si arrivava a questa partita – per noi, di importanza più che rilevante, fosse solo perché sono giorni che parliamo dell’“autostrada” che ci si è aperta davanti – siamo stati tutti a pensare ad altro. Infatti, in quel «stasera ne sapemo più del Bournemouth che della Cremonese», c’è tutto. Ma, soprattutto, c’è la verità di quello che è stato in questi giorni.
E allora inizia a farsi strada una sottile preoccupazione. Che ti avvolge completamente quando, nemmeno iniziato il secondo tempo, Mourinho ne cambia, in un colpo solo, quattro. Scelta, questa, che dà la conferma non solo che la situazione sia grave, ma anche che la squadra del primo tempo abbia sbagliato non l’approccio, ma tutto («Se ne cambia quattro, e li rischia co’ ’sto freddo, vuol dire che stamo messi male»). Ma la convinzione di farcela c’è ancora. E ci mancherebbe. Soprattutto quando si vede che dietro giochiamo a quattro («Mò si: adesso se mettono a palleggià ‘n mezzo al campo e la riprendiamo»). Ma dopo che ci segniamo da soli il secondo gol («Questi, du’ go’ co’ zero tiri in porta»), l’ingresso di Abraham porta a sospettare che ci si affidi, più che agli schemi, alla Provvidenza («Palla davanti e speramo bene»). Provvidenza, che, però, ci gira le spalle («’Sta partita è segnata») una volta che ci rendiamo conto che non riusciamo a mettere in porta dei palloni che nemmeno un ragazzino degli Esordienti. E peggio non poteva finire, con quel gol che lo sai che è arrivato troppo tardi, e ti dispiace ancora di più, perché speravi che questa potesse essere la serata di Belotti, e non di un Belotti migliore in campo in una notte da dimenticare («Ha fatto un gol inutile: domani già non se lo ricorda nessuno»).
E allora ci incamminiamo verso casa, e chissà quando prenderemo sonno. Che non sarà facile. Perché stasera siamo tutti responsabili. Colpevoli, mentre Kumbulla sbagliava, Ibañez inciampava, Smalling svirgolava, Abraham se lo magnava, di discutere, tra di noi, dei Cherries, dei prestiti con diritto di riscatto, dei du’ spicci che, quando dovrebbero servire per costringere la Roma a vendere Zaniolo, si chiamano “progetti”. E chiediamo solo due cose: che, da qui a giugno, questa serata rimanga l’ultima eccezione; e, sottovoce, che lui ritorni a fare a spallate su quella fascia. Perché noi, malgrado quelle tre parole, non l’abbiamo dimenticato.
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