Pierino Go'
George Best de’noantri: capelli lunghi e gol. Arrivò dal Milan con cui aveva segnato tre gol in Finale di Coppa Campioni e cancellò il ricordo della “Rometta”. Memorabile
Un colpo al cuore. Pierino Prati è andato a far gol in Curva Paradiso. A 73 anni, dimenticato colpevolmente un po' da tutti, anche dal Milan che aveva fatto grande e con cui non lavorava più da un paio d'anni. Se ne è andato dopo una problematica malattia, il ricordo di un gigante ridotto a una cinquantina di chili, l'aggravarsi delle sue condizioni negli ultimi giorni, ieri mattina il ricovero nell'ospedale di Erba, poche ore dopo il suo fisico ha detto basta.
Un colpo al cuore per chi, come chi scrive, è stato un ragazzino negli Anni 60, alle prese con una Roma che spesso era un viaggio nel dolore, la Rometta la chiamavano. Poi, arrivò Pierino Prati. Diventò in un attimo Pierino la Peste. Se mi chiedete chi è stato il primo giocatore in giallorosso che ai miei occhi si è trasformato in un idolo, la mia risposta è lui, Pierino Prati da Cinisello Balsamo, ripudiato dal Milan con cui aveva vinto tutto, compresa una Coppa dei Campioni, a Lisbona, contro quell'Ajax che poi avrebbe dominato l'Europa, tripletta di Pierino in quella finale, unico italiano ad averla mai realizzata nell'atto finale della coppa con le grandi orecchie.
Avevo 17 anni quando, estate 1973, si materializzò a Roma, i capelli lunghi, il sorriso stampato su quella faccia da playboy, le ragazze e le signore che impazzivano per lui, i ragazzi della Sud legittimati, finalmente, a cullare un sogno, vivere un'emozione, alimentare una passione che peraltro non era mai stata messa in dubbio. Era, almeno per me, il nostro George Best, il rivoluzionario del gol, l'attaccante per cominciare a inseguire un'utopia, il campione in grado di poter cambiare la nostra storia, la faccia strafottente con cui sfidare il mondo, l'attaccante con cui andare ad abbattere i mulini a vento.
Pierino Prati riceve un mazzo di fiori dalla Curva Sud
Ci mise poco a entrare nel cuore della gente romanista. Sì, i gol hanno avuto il loro peso, ma ci riuscì perché capì in un attimo che Roma e i romanisti erano qualcosa di diverso, sapevano amare a prescindere. Ricambiò quell'amore andando in campo sempre come se fosse una finale, non tirando mai indietro la gamba, mettendo la testa dove altri non avrebbero messo la gamba, impersonando quel coraggio che qualche anno dopo avrebbe cantato Francesco De Gregori per identificare un calciatore. E Pierino era un signor calciatore.
Grande fisico, piedi buoni, colpo di testa, personalità, la capacità di fare reparto da solo, seguitemi e io vi porterò in cima al mondo. Ci riuscì. Soprattutto in una partita. In un derby, basta la parola. Era il 23 marzo 1975. Quegli altri si presentarono in campo un punto sopra ma soprattutto con lo scudetto cucito sulla maglia. Ci pensò Pierino la peste a rimettere la chiesa al centro del villaggio, altro che Rudi Garcia. Si giocava in casa della Lazio. Pioveva quel giorno su un Olimpico strapieno, ma che ne sanno i ragazzi di oggi. Io, come sempre, ero nella mia Sud accompagnato dal sogno del sorpasso, altro che Gassman e Trintignan. Giuro, lo ricordo ancora perfettamente, che aspettando il fischio d'inizio, a quei tempi si entrava allo stadio tre ore prima come minimo, quel derby lo avevo giocato nel mio capoccione e, come ti sbagli, lo aveva deciso Pierino la peste.
C'era un tifo che era uno spettacolo, non ce ne fregava niente della pioggia, loro si sentivano sicuri, noi pure. Perché già li avevamo battuti due volte in quella stagione e poi c'era Pierino a farci stare un po' tranquilli, anche se in un derby la tranquillità è un concetto che non esiste e mai esisterà, altro che una partita come le altre. Loro avevano Chinaglia, noi Pierino. Furono 90' che se li vivessi oggi alla fine mi ricovererebbero d'urgenza in codice rosso. Novanta minuti meravigliosi, conclusi con un trionfo. Loro attaccavano, Paolo Conti aveva parato tutto, Peccenini in sforbiciata aveva salvato sulla linea un tiro di Chinaglia, la Roma combatteva, ci credeva. E noi, in Sud, ci credevamo con loro. Pierino ci dette ragione.
A una quindicina di minuti dal fischio finale, Peccenini, quello del salvataggio sulla linea, si trovò il pallone tra i piedi sulla fascia destra, nella metà campo di quegli altri. Peccenini, roba da non crederci, uno che se superava la metà campo gli venivano le palpitazioni, lui era un difensore, a quei tempi gli era vietato avventurarsi nella metà campo degli avversari. Quel giorno le palpitazioni non gli vennero. Amministrò quel pallone, poi crossò verso il centro. Sembrava un pallone innocuo. Quegli altri non avevano fatto i conti con la Peste. Che sbucò sul secondo palo, si sdraiò quasi a terra e con il piattone destro la mise dentro a porta vuota, proprio sotto di noi. Se esiste l'estasi, quel giorno la provai.
Trasformata nei minuti successivi in sofferenza allo stato puro, quegli altri ci provarono fino all'ultimo secondo di gioco, niente da fare, il derby era nostro, deciso da Pierino la peste. Me lo ricordo ancora il finale di quella partita, tutti a fare festa sotto la Sud, Pierino a regalarci il suo sorriso e il suo sogno, quegli altri superati e ribattuti, l'utopia trasformato in sogno realizzato, la speranza che non avremmo più dovuto fare i conti con la Rometta, c'avevamo Pierino, si poteva sfidare il mondo.
Arrivammo terzi quella stagione, trascinati dai 14 gol di Prati, ricordo che noi che stavamo in Sud scendemmo in strada vestiti con i nostri colori per festeggiare quel terzo posto, roba che a raccontarla oggi ci prenderebbero per pazzi, e invece eravamo felici della nostra Roma, trascinata da quel capellone che faceva girare la testa alle donne e gonfiava le reti avversarie. Con Pierino e quella Roma, furono poste le basi di una storia destinata a cambiare, non più Rometta, ma Roma, pronta a giocarsela con tutti, e dopo otto anni arrivò quel secondo scudetto atteso per quarantuno stagioni. Pierino ci fece capire che si poteva fare, che bisognava trovare solo trovare gli uomini giusti, che la storia stava cambiando, che era soltanto questione di tempo.
Il mestiere che faccio ormai da oltre quaranta anni, all'epoca di Pierino per me era ancora un sogno da realizzare. Eppure ho avuto la fortuna di conoscerlo Prati. Veniva spesso a Roma che considerava la sua città, sempre circondato dall'affetto dei tifosi di una certa età che di sicuro non lo hanno mai dimenticato, felice ogni volta di ricordare i suoi gol in giallorosso, in particolare quella rete al derby che ne certificò definitivamente il ruolo di idolo di una tifoseria.
L'ho conosciuto nel corso di una serata in cui un amico, Alessandro Conforti, un tifoso della Roma che è un'enciclopedia di notizie e di passioni, presentava il suo libro dedicato proprio a Pierino la peste. Un libro scritto con un cuore giallorosso, dedicato a un centravanti che ci aveva regalato un sogno. Ormai un certo pelo professionale sullo stomaco purtroppo l'ho messo, eppure quella sera, seduto davanti a Pierino, l'emozione mi assalì e di questo non posso che continuare a ringraziarlo, se non altro perché le emozioni sono tutto quello che abbiamo. E parlando con lui quel gol nel derby l'ho rivissuto attimo dopo attimo, ricordando come fosse ieri quel derby vinto sotto la pioggia. Se mi chiedete i 5 gol della Roma a cui sono più legato, quello di Pierino sta sul podio. E sarà uno degli ultimi a svanire dai miei ricordi.
Grazie, Pierino.
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