The only one
Dentro José il romanismo ormai scorre e pulsa a pieni ritmi. Non avremo mai un altro come lui. E Mourinho non avrà mai altri come noi
Dice: «Ma è soltanto una vittoria col Lecce». Oppure: «Non si può soffrire così». O ancora: «Siete i soliti esagerati». Come fai a spiegare il mare a chi lo guarda e vede solo acqua? Minimizzatori in servizio permanente effettivo; ipercritici spesso provenienti dall’iperuranio; semplicemente esterni, ostili o agnostici fa poca differenza: chi razionalizza tutto lo scibile fatica a comprendere.
Perciò tende a sminuire, svilire, denigrare. Sì, lo sappiamo bene anche noi che quella del Manchester di Ferguson nella finale col Bayern aveva ben altro in palio. Le tre Grazie sono state già ampiamente scomodate, non vi disturbate.
Per cogliere l’immensità di quei 137 secondi trascorsi dall’incornata di Azmoun in stile Pruzzo alla miscela di tecnica e forza griffata LuPa devi avere sangue nelle vene, possibilmente romanista. Perché valgono 137 anni o forse più. Rappresentano migliaia di esistenze che si accavallano, sui seggiolini dell’Olimpico come sui divani di casa o ai tavolini di un pub, davanti a quelle immagini. Sono tutte insieme «Quell’estate che...», «quello sguardo incrociato», «quando mi hai detto sì», «quando sei nata tu» e tutti quei ricordi che trasformano un momento in un’eternità. E a chi importerebbe se non avesse modo di condividere quell’attimo?
Noi siamo fortunati, siamo parte di questa comunità, avvertiamo l’atmosfera friccicarella respirandola a pieni polmoni e non a caso l’aggettivo più ricorrente nella storia della Roma è “magica”. Non date retta a chi sostiene il contrario: il mantra incapacitante del mainagioismo non ha mai soppiantato la pazza gioia di essere romanisti, tanto per rimanere nell’ambito degli slogan. L’entusiasmo delirante scaturito dalla rimonta col Lecce ne è l’ennesima prova. Ed è contagioso. Anche per chi è stato appena adottato, come Lukaku, che probabilmente da queste parti è solamente di passaggio, che di partitone e finali e trionfi e grandi squadre ne ha vissute eccome, eppure si scioglie in lacrime qui, in una gara qualsiasi di campionato contro un avversario non di primo piano.
E soprattutto per José Mourinho da Setubal, dentro il quale il romanismo ormai pulsa e scorre a pieni ritmi. La sua carriera ha toccato la vetta nei club più-organizzati-al-mondo, con i giocatori più-forti-al-mondo, le proprietà più-ricche-al-mondo, dentro stadi-astronavi. Cercando, a volte costruendo - e sempre trovando - sintonia massima coi rispettivi ambienti, immergendosi da capo a piedi nelle acque sacre di ognuna delle sue squadre. Immedesimazione iperbolica. Una sorta di Metodo Stanislavskij applicato al calcio. Ma nessuna fiction: impossibile per chi si nutre del potere delle folle. Forse per questo il solo rapporto privo di picchi di passione è stato col Tottenham, negli anni del Covid, quindi senza pubblico. Quello romanista lo ha amato subito, quasi incondizionatamente. Lui ha ricambiato lasciandosi conquistare, forse a poco a poco ma senza riserve. Anzi. L’ultima (non l’unica) dichiarazione d’amore è di domenica: «Non è normale tutta questa passione dei tifosi quando stai perdendo in casa a pochi minuti dalla fine».
Empatia e famiglia sono stati i suoi leit-motiv; sorrisi, pianti, abbracci, baci (straordinario quello ad Aouar, duramente ripreso in pubblico appena qualche settimana fa) i gesti ricorrenti. Pensateci. Sono gli stessi di chi è innamorato. In questo caso di un gigante del calcio, che non ha avuto bisogno di bacheche rigonfie all’inverosimile e di tutto il meglio-del-mondo per trovare la sua sposa ideale. L’amore non si decifra, non si delucida, non si rende comprensibile a chi è distaccato. Si vive, oppure no. E se sì, è privo di condizioni. Perciò non avremo mai un altro come lui. E Mou non avrà mai altri come noi. Il resto sono soltanto chiacchiere da bar.
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