Quando il virtuale travalica la realtà
Tra luoghi comuni e manicheismo, è innegabile che il club non susciti simpatie in larga parte della comunicazione
In media stat virus. Da dove sia partito il germe che assedia la Roma è ormai argomento che attiene alla ricerca storiografica. Ma è innegabile che il club non susciti simpatie in larga parte della comunicazione. Intesa in senso lato: dai mezzi classici ai social ai personaggi pubblici, che nell'ostentare fede giallorossa ci aggiungono anche quel pizzico (o molto di più) di veleno. Non verso gli avversari, ma nei confronti della stessa squadra che sostengono di tifare. Qualche settimana fa un attore figlio di un noto personaggio dello spettacolo, nel presentare una sua opera in tv, si è dilungato sul mercato giallorosso. Erano i giorni più bui e sparare a zero su Monchi era diventato esercizio semplice quanto diffuso. Nell'elencare i presunti errori del dirigente, ha citato la cessione di Dzeko. Testuale: «Perché per me è stato ceduto». Ormai oggetto del sarcasmo è la Roma.
Il dato del Cies che la pone fra le più stabili d'Europa per quanto riguarda la permanenza media dei giocatori, sventra una delle tante bandiere della critica pregiudiziale, forse quella maggiormente usurata dal continuo sventolio degli ultimi tempi. Ma non svela nulla di nuovo. Se non a chi non ha voglia di guardare, prigioniero di slogan o tifoso di grottesche fazioni. Molto più che della stessa Roma. Perché in questo assurdo, snervante bipolarismo fra chi si sente al governo e chi all'opposizione (a seconda della fiducia riposta o meno nella società), si è perso di vista il bene primario. Smarriti in un manicheismo che se non fosse tragico sarebbe comico. Pronti a sparare a zero in direzione di chiunque provi a spostare l'attenzione sul bene della Roma. E di chi le sta accanto. Le battaglie contro la Tessera del tifoso, per la rimozione delle barriere e per l'installazione dei palchetti in Curva (tutte condotte in solitudine) sono state a lungo celate o interpretate al contrario. Così i rinnovi di Totti (due volte dopo i 35 anni), De Rossi (due volte, la prima volta ripreso per la cuffia col contratto in scadenza e mezza Europa che lo corteggiava) e Florenzi, il ritorno di Pellegrini dal Sassuolo, sono diventati «scontati, il minimo indispensabile».
Il giallo e il rosso originale riportato sulle maglie; l'intitolazione di un campo e di un torneo a Di Bartolomei, e del piazzale di Trigoria a Dino Viola; "Campo Testaccio" e "Forza Roma, forza lupi" recuperati nei prepartita all'Olimpico; la Hall of Fame per celebrare i giocatori più rappresentativi della storia: ogni iniziativa volta a recuperare l'identità bollata nel migliore dei casi come «inutile», a fronte di una presunta «deromanizzazione» che è quanto di più lontano possa raccontare la realtà. In giro ne va una virtuale, amplificata da megafoni banalotti tanto in voga sui social: «Hanno rovinato il settore giovanile» è un altro mantra. Ovvero quello che continua a conquistare trofei e a sfornare talenti. E così via. Fino al «tanto vendiamo tutti», padre e figlio al tempo stesso del «se viene qui è una pippa». Loro sono leggenda. Metropolitana. La Roma invece lo è sul serio, chiunque la rappresenti. Basterebbe volerle bene a prescindere.
© RIPRODUZIONE RISERVATA