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«Dite qualcosa di romanista!» - Le responsabilità della società nella crisi della Roma

La dirigenza è percepita lontana dai tifosi: mancano empatia, comunicazione ma soprattutto quel pizzico di follia romanista

PUBBLICATO DA Valerio Curcio
29 Gennaio 2018 - 23:00

"Dove sta la società?" si sono chiesti molti tifosi all'Olimpico domenica sera. È un buon punto di partenza per provare a individuare la porzione di responsabilità che nella crisi della Roma spetta alla dirigenza. Dove sta la società, a Boston, a Londra o a Trigoria? In realtà sta in tutte e tre le sedi ma, fisicamente, non è riconoscibile in nessuna delle tre. E già questo disorienta il tifoso, che ha bisogno di un riferimento concreto: un palazzo sotto cui protestare, un dirigente da interpellare. James Pallotta è il proprietario della Roma ma difficilmente può esserne riconosciuto come il presidente: la figura plenipotenziaria che in caso di successo si prende i meriti e in caso di fracasso funge da parafulmini e - se è bravo - da garante della volontà e della soddisfazione dei tifosi. Un rappresentante non eletto che, magari anche in maniera un po' furbesca, sbatte i pugni sul tavolo e chiama tutti a rapporto.

Questo a Roma non si verifica e per certi versi è anche una buona cosa, perché il futuro del calcio europeo ci chiede di superare la figura del presidente-padrone: non più un proprietario che "apre il rubinetto" dei milioni, ma una società strutturata nei suoi ruoli capace di generare ricavi con le proprie forze. Rimane però un forte problema di riconoscibilità: dove sta, ma soprattutto chi è la società? Chi fa le veci di Pallotta a Trigoria? Chi si chiude nello spogliatoio coi giocatori dopo la partita e fa sentire le urla fino a fuori dallo stadio? Chi prende il microfono e dice qualcosa di eclatante? Chi va in tv e chiede scusa? Al momento, questo non lo fa nessuno. O, paradossalmente, in troppi.

Voli diretti e dirette Instagram

A minare il morale e la tranquillità dell'ambiente non sono stati solo i risultati. In un circolo vizioso ai limite del malefico, le prestazioni della Roma hanno combaciato col periodo del calciomercato, che più degli altri anni ha dimostrato quanto la frase di rito "il mercato non influenza lo spogliatoio" rimanga appunto una frase di rito. Ma prima delle (finora nulle) bombe di mercato è arrivata la bomba di capodanno. Che è deflagrata, ha fatto i suoi danni ed è stata in fin dei conti gestita bene dalla società, con Nainggolan multato e messo fuori per una partita da Di Francesco. Viene da chiedersi, però, come un calciatore di esperienza abbia potuto sentirsi in diritto di fare qualcosa del genere, così come quelli che il giorno dopo alcune partite penose hanno spensieratamente pubblicato stories su Instagram mostrando al mondo le proprie vacanze e le proprie colazioni.

Nainggolan stesso è stato oggetto di voci di mercato, gonfiate e sgonfiatesi in fretta, al contrario di quelle su Dzeko. Anche se alla fine il bosniaco non prenderà il volo per Londra, rimarrà comunque la certezza che erano disposti a venderlo. E quindi a privarsi di uno dei pilastri di questa Roma, nonché di uno degli unici due giocatori ad aver vinto un campionato che al momento vestono la maglia giallorossa. Non è solo una questione tecnica, ma di mentalità. La rappresenta bene lo sfogo di Kolarov - l'altro ad aver vinto un campionato - alla fine del primo tempo della sconfitta con l'Atalanta: pedala, detto non si sa esattamente a chi, non si sa per cosa, ma sicuramente a un compagno di squadra. Pedalate, basta dirette Instagram, basta selfie, basta pollici alzati, basta abbracci con gli avversari, basta cuffie quando scendete dal pullman. Pedalate e se proprio dovete perdere uscite dal campo più incazzati di quanto lo sono i tifosi.

Nella storia la Roma ha avuto squadre infinitamente peggiori di questa che uscivano dallo stadio tra gli applausi. Perché? Forse perché a quei giocatori, almeno in apparenza, rodeva quanto rodeva ai tifosi. La dirigenza della Roma avrà mai spiegato ai giocatori che almeno in pubblico je deve rode? I nostri calciatori sembrano invece spauriti, terrorizzati dall'ambiente e dal confronto coi tifosi. E anche questa è una responsabilità della dirigenza, che non è stata capace di insegnargli ad affrontare l'ambiente, a rendersi immuni ai veleni che intossicano questa città. È al contempo una questione di autorevolezza e di autorità. Siamo di nuovo ai pugni sbattuti sul tavolo, a quella frase detta nel post-partita che fa sbarrare gli occhi al presentatore televisivo. Quella stessa frase che fa sentire al tifoso che lì a Trigoria c'è qualcuno a cui je rode tanto quanto a lui. Questo, finora, non c'è stato.

«Dì qualcosa di romanista!»

C'è poi un'altra macro-questione. Quella del rapporto che negli anni questa società è riuscita a stabilire con i suoi tifosi e che ha toccato nelle manifestazioni di domenica uno dei suoi punti più bassi. Sono due le parole chiave per affrontarla: empatia e comunicazione. Empatia, quella che i tifosi sentono mancare nelle situazioni critiche, sportive e non. E non è un concetto legato al calcio romantico di tempi andati: nel calcio di oggi empatia è per un'azienda interrogarsi sui motivi del malcontento e agire di conseguenza. Non ci sono solo il nuovo stemma e la Nike: anche l'empatia è marketing, perché la Roma è un lovemark e i suoi tifosi vogliono volerle bene e farsi volere bene.

Come mai, in un periodo in cui la Roma raggiunge piazzamenti ben superiori alla sua media storica, ci sono meno affetto, pazienza e comprensione che in passato? Non può che essere un grande problema di comunicazione. Raramente i tifosi sentono i dirigenti pronunciare parole a loro emotivamente vicine. Raramente li ascoltano dire qualcosa di ingenuamente tifoso, di profondamente romanista. Anzi, è capitato anche che nel passato recente dalle bocche di dirigenti uscissero parole facilmente fraintendibili, se non del tutto inopportune, come quelle di Pallotta rivolte ai manager di Londra ma ascoltate da tutta Roma. Parole che hanno minato il lento lavoro di riavvicinamento (in seguito all'allontanamento del fuckin' idiots) svolto per anni dall'anima romana della dirigenza.

Nel Cinquecento Machiavelli sosteneva che un buon principe non solo deve essere virtuoso, ma che deve anche apparire come tale presso i suoi sudditi. A Roma la tendenza è contraria: c'è davvero chi pensa che la società abbia voluto e contribuito a far costruire le barriere al centro delle Curve. La dirigenza romana ha svolto la sua battaglia per farle rimuovere nelle segrete stanze anche alzando la voce, ma tale voce non è riuscita ad arrivare ai tifosi. E non basta additare come disinformato chi lo è: l'interesse del club deve essere quello di informarlo. Perché al contrario, quando la comunicazione è negativa, gli effetti sono nefasti: quanti tifosi ad oggi sanno che è impossibile che Pallotta - al contrario di quanto ha detto - abbia davvero potuto comprare le telecamere alla polizia, come spiegato da Lorenzo Contucci su queste pagine? Una soluzione rapida per tutto questo non c'è. Di certo c'è che la Bundesliga ha imposto ai club di predisporre un ufficio di relazioni coi tifosi composto da almeno tre persone. Ma non basta lo Slo: occorre porsi seriamente il problema di come recuperare la fiducia dei tifosi. Perché sono il patrimonio più grande della Roma.

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