Ranieri e lo scanso di equivoci
Giù al Nord, zona Formello, quel «così è stato» del tecnico in conferenza, semplice constatazione di fatti antichi e consolidati dal tempo, è rimasto legato al dito
Così è (stato), se vi pare. Anche se a qualcuno non pare. E a distanza di nove anni più o meno esatti riesce perfino nell'impresa di sentirsi piccato. Altro che interpretazioni soggettive della realtà e teatro pirandelliano. La commedia dell'assurdo va in scena a conferenza stampa ranieriana appena conclusa. Ovvero pochi minuti dopo il paradigma della leggerezza tramutato in comunicazione. Trovare spunti polemici nelle parole del tecnico giallorosso è sempre esercizio ardito: dall'alto della sua esperienza ci ha anche scherzato sull'assoluta assenza di titoloni forniti agli interlocutori. Ma senza provocare alcun risentimento, anzi riuscendo a generare empatia, perfino simpatia in chi prende posto di fronte a lui. Prodigi del clima sereno che è riuscito a generare. Ma che evidentemente non è riuscito a travalicare determinati confini.
Giù al Nord, zona Formello, quel «così è stato», semplice constatazione di fatti antichi e consolidati dal tempo, è rimasto legato al dito. Tanto da invocare interventi della Lega. Che a scanso di equivoci, non si sono palesati. Come quelli federali, di cui a un tratto si è sparsa notizia come fossero avviati, anche se conferme ufficiali non sono mai arrivate. La procura indaga, anzi no, anzi forse. Su quale gravissimo fatto non è dato sapere, perché se c'è qualcosa che non può essere malinteso è il senso di Ranieri per la realtà. Sia pure riferita a nove anni prima. Quel 2 maggio del 2010 lo striscione recante «Oh nooo» è stato effettivamente ostentato senza alcuna remora. Al contrario: ha costituito per chi lo ha esposto una medaglia da appuntarsi al petto. Come se l'Inter che si accingeva a conquistare il triplete avesse avuto bisogno di un pubblico prono per battere una squadra a pochi passi dalla zona retrocessione.
Come se la Roma non avesse sprecato la sua occasione da sola, una settimana prima, rendendo vane le ultime tre vittorie consecutive di una rincorsa comunque leggendaria. In soccorso alla memoria le parole di un protagonista diretto dell'epoca, Aleksandar Kolarov, a poche ore dal fattaccio, quando era (ancora per poco) dalla parte sbagliata della barricata: «È normale che una squadra che lotta per vincere lo scudetto possa battere una che gioca per non retrocedere. Tutti hanno visto quanto ci siamo impegnati durante il primo tempo». Dichiarazioni tutt'altro che di facciata, conoscendo il personaggio e la sua assoluta mancanza di ossequio a ogni sorta di ruffianeria.
Con un seguito ancora più eloquente: «Sono ancora sconcertato per quanto accaduto. Invece di essere dalla nostra parte e tifare per la salvezza, la stragrande maggioranza degli spettatori ci urlava di non giocare la partita. Questo atteggiamento però è andato oltre la rivalità sportiva, il buon senso e l'intelligenza. Non è più passione, ma malattia». Attualizzando la questione e riprendendo la domanda che dalla conferenza di Trigoria ha creato il casus belli, tocca di nuovo a una squadra nerazzurra e lombarda fornire la possibilità di scansarsi a chi ne ha fatto stile di vita e motivo di vanto. Se così fosse, semplicemente si potrebbe assistere a una doppia esultanza, all'Olimpico come nel resto di Roma. Ma ancora a scanso di equivoci, il problema sarebbe tutto di chi si scansa. Non certo di chi riporta i fatti. Fin troppo da signore.
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