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"La soluzione al caos si chiama Daniele De Rossi. Vi spiego perché"

Dotto scrive per Il Romanista: "Juric sta allenando una squadra triste, questa avventura non fa per lui"

(GETTY IMAGES)

PUBBLICATO DA Giancarlo Dotto
04 Ottobre 2024 - 15:40

Caos a Trigoria. Disastro infinito. Tutto il male viene per nuocere. Anche l’ultimo degli imbecilli capirebbe a questo punto che i giocatori non hanno mai accettato la situazione, che il tempo non sana, anzi, peggiora la malattia che da ieri sera sarà bene chiamare melanconia. Anche il più pervicace e ottuso degli imbecilli capirebbe che la squadra sta rigettando Ivan Juric. Semplicemente non lo vuole, senza per questo volergli male. Anzi, ha imparato a rispettarlo l’uomo che non ride e si genuflette. Ma il rispetto non basta. Il rispetto non è amore.

La verità? Daniele De Rossi non è mai uscito da Trigoria. Quel mercoledì assurdo la sua Lamborghini ha portato fuori dal cancello lo straccio elegante di un uomo preso a pugni, un uomo con il puntiglio della dignità nonostante la batosta e il tappeto che sapeva di melma, ma ha lasciato lì dentro un fantasma grosso come le scimmie di Carlo Rambaldi al cinema dello spavento. I fantasmi non hanno corpo, ma prendono il corpo degli altri, non hanno ossa né sangue, ma fanno male e, se ti entrano nella mente, è finita. Ti mangiano vivo. Josè Mourinho non aveva lasciato questo vuoto, nemmeno lontanamente aveva lasciato questo smarrimento. Se ne andava un personaggio enorme, ma uno che dovunque va si porta dietro le sue insegne, la sua patria e la sua vanità.

Anche Ivan Juric, che non è per niente un imbecille, sta rigettando se stesso. Sa che sta occupando un posto che non gli spetta, sa di essere finito in un incubo che era di un altro e adesso è tutto suo. Sa che la tristezza collettiva di un gruppo non è medicabile e non è misurabile. Riconoscerla è stato un gesto elegante ma anche la confessione di una sconfitta. Quella spedita in campo contro una manciata di svedesi che non fanno una nostra modesta squadra di B era una formazione a perdere. I cambi così tardivi, masochismo puro, così come le surreali parole a fine partita, a sbandierare con la faccia più triste del mondo, la faccia di Juric, un’euforia da bel gioco nella quale era il primo a non credere. Questo Juric educato, tenero, garbato è un uomo ammirevole, ma non è Juric, è solo il suo edulcorato involucro. Juric ha bisogno di allenare satanassi spensierati, stalloni infaticabili. Sta allenando ragazzi tristi, spenti e senza convinzione. Non giocano a perdere, sono persi prima ancora di poter giocare.

Come se ne esce? Se ne esce? Quando fai una monumentale cazzata, e allontanare De Rossi è stata una monumentale cazzata, devi saperlo riconoscere e virilmente tornare sui tuoi passi prima di non avere più le gambe per farlo. Si chiama pragmatismo texano, perché deve essere nato da quelle parti, quando Tex Willer aveva ancora la faccia di Gary Cooper. La signora che ha fortemente voluto tutto questo, non c’è più. Si chiamava e si chiama Lina. Rimossa lei, rimosso l’ostacolo più grande. Probabilmente i Friedkin vorranno lasciare al nuovo Ceo la responsabilità di una decisione che potrebbe sembrare il caos al suo parossismo, ma sarebbe invece solo la fine del caos. Il ritorno di De Rossi. Stracciare e buttare nel cesso la pagina scritta da uno sceneggiatore ubriaco. L’onore delle armi e di tutto quello che gli spetta al soldato Juric e rimettere insieme i cocci a Trigoria, il corpo e il fantasma nella stessa figura. Fino al punto di arrivare a chiedersi un giorno: ma è successo veramente? E rispondersi: certo che no, è stato solo un pessimo sogno.

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