L'autogol scudetto
Per tanti è la partita per antonomasia, grazie all’autorete di Paolo Negro vinciamo il derby e togliamo lo Scudetto proprio a loro. La Sud impazzisce e inneggia all’eroe

(GETTY IMAGES)
Domenica 17 dicembre 2000. Pagina 7 della «Gazzetta dello Sport». Titolo: Negro. Catenaccio: Il campione biancoceleste ci apre le porte. Il suo mondo, le sue passioni, il suo futuro. Sommario: Da piccolo ero juventino, piansi per la finale persa ad Atene. Tornerò al gol. Come? Letto bene? Tornerò al gol. Scritto sulla «Gazzetta dello Sport» il giorno del derby di… Paolo Negro. Se questa non è una profezia, ditemi voi come altro chiamarla.
È per forza con questo reperto, tra il magico e l’archeologico, rimasto finora nel cassetto e col registro della goliardia, che va ricordato il derby di andata della stagione del terzo Scudetto, quello di Paolo Negro. È così: non è sadismo o sfottò da derby. È tabellino, è storia, è vittoria: Lazio-Roma 0-1, 70’ Negro (autorete).
Vincere un derby con un autogol è il sogno di ogni tifoso, poi vincere il derby con un autogol nell’anno in cui vinci lo Scudetto è ancora più godurioso; ma vincere il derby con un autogol nell’anno in cui vinci lo scudetto per due punti (cioè, un innesto perfetto, proprio per l’autorete di Negro), allora è sublime; se poi l’anno prima lo Scudetto l’aveva vinto proprio la squadra di Negro, be’ allora forse vi avvicinate a capire le sensazioni e il significato di quella notte per i romanisti. Delirio puro. Gioia suonata da Beethoven e dalla Curva Sud, scandita da quel coro: «Dammi tre punti non chiedermi niente…» (anche perché più di così che vuoi chiedere?), che nel secondo tempo è stato talmente incessante da accompagnare la Roma al trionfo.
Di quello si tratta quando si tratta di quella notte. I tifosi sono usciti dallo stadio strillando «Paolo Negro go», con la felicità di essere e sentirsi primissimi, di aver staccato proprio la Lazio spedendola sotto di 10 punti, avendone 6 di vantaggio sulla Juventus che avremmo incontrato cinque giorni dopo proprio a casa nostra.
Era l’anno giusto, e se forse giustamente avevamo ancora qualche dubbio, perché alla fine mancava ancora troppo, non importa perché sicuramente quella era la notte giusta e basta, senza se e senza ma, solo dell’autorete. Un derby lunghissimo, quello del 17 dicembre, iniziato almeno cinque giorni prima quando la Roma romanista si era messa in fila alla Sestante a via Torino per cercare di avere un biglietto per la partita: erano tempi in cui le prelazioni non bastavano ad assicurarselo. I bagarini vendevano le curva a 150.000 lire.
C’era Roma che voleva andare allo stadio e sulla carta (sempre e solo sulla carta) la Roma giocava in trasferta. Non fu così, non sarà mai così. All’ingresso in campo, tanti stendardi e tanti labari imperiali, in una Sud gonfia di giallo ocra e rosso pompeiano si alzano i suoi vessilli nel nome di Roma («Nel nome di Roma s’innalzano i vessilli dell’Impero»). La scritta che avrebbe dovuto accompagnare la coreografia originariamente sarebbe dovuta essere quella che poi la Gens Julia espose nella trasferta di Bari a fine maggio: «Ave Roma le legioni ti salutano».
Dall’altra parte, con i fratini i laziali componevano un tricolore che però a fine partita se ne sarebbe letteralmente andato («Lo scudetto, lo scudetto, lo scudetto se ne va…», il canto romanista). Un derby unico già nelle premesse, con la Roma prima in classifica e gli altri campioni in carica. Un derby mai visto alla fine grazie a quello che è accaduto al minuto 70: appoggio di Batistuta dalla trequarti a Cafu, traversone da destra a sinistra per l’accorrente Cristiano Zanetti, che colpisce di testa. Peruzzi fa una grande parata respingendo il pallone verso Alessandro Nesta che, nel tentativo frenetico di spazzare, colpisce il compagno Paolo Negro tra la pancia e lo sterno, carambola e gol. Carambola e gol. Gol. Gol. Gol.
«Paolo Negro gol», si comincia a cantare e non si smette più, insieme a quel «Dammi tre punti non chiedermi niente», e anche un altro coro che prenderà piede soprattutto quella sera: «Battiamo le mani ai veri romani…». E a Paolo Negro. La partita soprattutto prima del gol era stata testa, tesissima, tirata, nervosa, con poche occasioni (un colpo di testa di Simeone e una punizione di Batistuta), da una parte e dall’altra. Dopo il vantaggio e il delirio, il fiato sospeso fino alla fine, fino a non averne più quando Pavel Nedved da fuori area colpisce la traversa e la palla rimbalza sulla linea. Non era gol. No. L’unico gol buono di un derby che alla fine sarebbe risultato assolutamente decisivo per lo scudetto era quello di Paolo Negro. Sembrava tutto troppo bello e incredibile, e invece sarebbe bastato leggere la «Gazzetta dello Sport» quella mattina per capire che era tutto vero.
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