Non sognavo di essere Agostino
Io non volevo essere Agostino perché lui doveva stare ancora qua. Ognuno ha il suo Agostino, il mio è quello che non ci sta

(Credit AS Roma)
Il 29 ottobre al Tempio di Adriano, Luca Di Bartolomei per presentare la Fondazione intitolata al papà che aiuta le famiglie meno agiate a far fare sport ai ragazzi (perché in questa società pure lo sport costa) disse una cosa che mi è rimasta impressa: «Ognuno di noi ha il suo Agostino. Ognuno di noi ha il suo Agostino a cui rivolgersi in un momento di difficoltà». Ognuno ha il suo Agostino, lui lo aveva come papà e oggi avrebbe compiuto 70 anni. Il mio è quello a cui avrei voluto fare gli auguri.
Io non sognavo di essere Agostino perché Agostino doveva stare là, fuori. Io ero il tifoso bambino pazzamente innamorato di una squadra e di uno stadio e lui era quello che ci guidava. Perché Agostino mi dava sicurezza, ce la dava a tutti. Era un secondo papà in quegli anni in cui veramente la Roma era vissuta come una famiglia, a porte aperte nei ballatoi dei quartieri. Io non volevo essere Agostino perché lui mi rassicurava, era quel pizzico di tranquillità in più che avevo quando subivamo un calcio d’angolo e lui si metteva sul primo palo di Tancredi. Urlava. Scrutava. Non perdeva di vista il pallone. Lo spazzava.
Era quello che mi rappresentava con l’arbitro, cioè con la legge, i genitori per me, quello che aveva una missione: la Roma Campione. Io non volevo essere Agostino perché Ago se c’era lui eravamo più forti, perché se c’era lui le cose in campo, e soprattutto in allenamento, si sarebbero fatte seriamente: niente sarebbe stato lasciato al caso. Io non volevo essere Agostino perché un po’ già lo ero, perché in Agostino mi ci riconoscevo: era serio, timido, capelli corti, sempre a posto (apposta crescendo sono diventato punk), sicuramente figlio di un’educazione profonda, severo con se stesso, sapeva parlare bene come io da ragazzino facevo bene i temi. Tiravo forte all’oratorio di Padre Libero a San Lorenzo, ma certo non avevo la sua bomba.
Forse avrei voluto essere Agostino, ma non per dare un calcio alle mie paure (è splendido questo verso, Marco), ma alle sue, se solo avessi mai immaginato ne avesse. Se solo lo avessi capito, se solo lo avessi saputo io non avrei voluto essere Agostino ma Carlo Ancelotti che è stato il primo ad abbracciarlo dopo il gol del 2-0 all’Avellino. Per farmi abbracciare forte da bambino e, invece, tenermelo stretto adesso senza chiedergli cos’è stato (che ne sapete cosa aveva dentro? Che ne sapete come si fa ad evitare proprio e solo quel momento?).
Io non volevo essere Agostino perché lui era il mio Capitano, quello di una città e di una squadra che ha fatto veramente felici le persone (non ti è bastato Ago?). E io pensavo non potesse temere niente, nemmeno la morte. Per me era immortale. Lui che la morte se l’è andata a cercare. Io non volevo esse Agostino perché con lui… Everything’s gonna be alright. Io non sognavo di essere Agostino perché lui doveva stare ancora qua. Ognuno di noi ha il suo Agostino, il mio è quello che non ci sta.
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