La costruzione di un amore
"E finché vedrai in una bandiera la nonna che cuce, la merceria che riapre, il nonno che parla al nipote... Vedrai la Roma"

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Io non so nemmeno com’è finita la partita, mi sono messo a guardare solo la Roma: cioè le persone con le bandiere. Quando ero ragazzino mi sono definitivamente innamorato della Roma – cioè ho deciso che “questa cosa” avrebbe fatto sicuramente parte sempre di me – per un coro del Commando: “…Noi t’amiamo e lavoriamo…”. Capivo così, sbagliando, confondendo il “t’adoriamo” con il “lavoriamo”, ma lo trovavo, anche a quell’età, così perfettamente rappresentativo di Roma e della romanità. E insieme così serio e poetico.
Saranno le origini umili, sarà San Lorenzo dove abitavo, ma io la Roma la vedevo come “quella cosa” che univa le persone, quel pane quotidiano che più che pregato andava portato a casa, guadagnato. I ballatoi e i pianerottoli con l’odore di fettina panata, il discorso sempre sotteso in ogni battuta, la “cosa” che definiva il tempo tra un guaio, una malattia, una bella notizia, la famiglia, la scuola, la delinquenza, l’amore, insomma: la vita. Si era della Roma perché così imponevano i sampietrini, i vicoletti, le fontanelle, le persone e tutto quello che respiravi.
Giovedì allo stadio i romanisti hanno portato questo: la costruzione di un amore. Hanno portato il lavoro della settimana, hanno portato l’applicazione, la cura, l’amore verso la Roma. Dietro ogni centimetro di stoffa cucito, ogni mezzo metro tagliato, ogni metro di stoffa comprato ci ho visto questo. E finché vedrai in una bandiera la nonna che cuce, la merceria che riapre, il nonno che deve parlare al nipote di quello che il padre aveva trasmesso a lui (“Lo sai che una volta c’era uno che si chiamava Losi…”) vedrai la Roma. Finché vedrai questa bandiera avrai un libro da fare, una barca da scrivere e un treno da perdere. Finché vedrai questa bandiera vedrai il rosso sangue del popolo e l’oro degli dei, la Terra e il Mondo di Heidegger, il rosso del lavoro delle mani coi calli, e il giallo di un mondo dorato, fatato e incantato come l’Olimpico di venerdì. L’hanno creata tutti quella magia, partecipando al primo caso di coreografia “aperta” e in proprio, diretta: senza permessi, senza plastica, senza autorizzazioni di società, non Hollywood ma Testaccio. Sessantamila persone. Ognuna una formichina, ognuna un lupo. Ognuno una bandiera che sventola la storia della sua vita: la nostra è la Roma. Quello sventolio era cominciato da giorni, dentro lo stadio è stato solo l’ultimo atto. Come il gol all’ultimo secondo di Shomurodov. Ah sì, lo so che abbiamo vinto, ma avessimo perso 7-1 non sarebbe dovuto cambiare niente lo stesso. Ieri mi ha scritto un ragazzo che mi ha mandato questa cosa che avrei voluto scrivere io: “Guardo al cielo e me dico è roba da pazzi, sorido e a quel che sarà je dico sticazzi”. Io non so come finirà la partita a Bilbao, ma quello che è successo giovedì è un viaggio di solo andata: la Roma con la sua gente ha vinto quando è nata.
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