C'è ancora oggi
In un momento in cui il futuro sembra incerto bisogna recuperare la fiducia nel futuro. Come quella volta contro il Venezia
Venezia squadra di una città romantica e decadente sembra perfetta per un ricordo insieme beneaugurante e struggente. Ci abbiamo giocato l’ultima partita all’Olimpico prima di Tirana, un 1-1 piccolo piccolo circondato da numeri sin troppo grandi: 46 tiri e 4 traverse. Un risultato che non servì a niente, ma una partita che invece servì a celebrare la comunione di spirito prima del viaggio, soprattutto grazie al giro di campo con Mourinho deluso, ma a capo di una squadra che all’epoca si riconosceva in lui e nel suo capitano. Era sempre Lorenzo Pellegrini, che all’ultimo secondo di quella partita ormai inutile si mise a rincorrere non so chi del Venezia, comunque uno lanciato da solo a segnare facilmente a porta vuota: Pellegrini a una decina di giorni dalla finale di Conference, dopo 46 tiri, 4 traverse e una classifica in campionato compromessa, riuscì ad evitare la sconfitta che pure non avrebbe cambiato niente. In quell’azione, in quel recupero per me c’è stato il senso della prima Roma di Mourinho e della Roma di Mourinho tout court: quella furente necessità di arrivare al traguardo attraverso una serie di comportamenti, anche (relativamente) ingiusti. Quello più delle giocate di qualità, più delle punizioni, più del tacco o delle sovrapposizioni.
Quello è l’augurio per oggi (e sempre) a Pellegrini (se gioca) e a tutta la squadra (che deve giocare). Sono passati quasi 900 giorni da quel giorno, quasi 700 da quando non giochiamo alle 15 in campionato all’Olimpico (era un Roma-Torino contro Juric!), sono quasi 1.000 da quando non ci arbitra Abisso, è un abisso da quando il Venezia di Loik e Mazzola , il 31 maggio 1942, ci regalò praticamente lo Scudetto battendo alla terzultima di campionato il Torino, mentre noi in casa facevamo 6 gol all’Inter scavalcando i granata. Quel campionato ce lo andammo a (ri)prendere proprio vincendo col Venezia che era secondo, con un gol di Amadei e un rigore parato da Masetti che sulla linea di porta cominciò a parlare da solo, prima del tiro, immaginando un dialogo con la figlia che stava per nascere: Cabiria. Alla fine è un kolossal questa sfida col Venezia: pensa, non li battiamo da quando avevamo il Tricolore sul petto (il 2 dicembre 2001, Fuser!), il Tricolore che poi abbiamo lasciato proprio a casa loro al ritorno di quella stagione con i due rigori di Montella, loro che hanno vinto un tricolore in forma di coccarda, una Coppa Italia, battendoci in finale (1940/41) dopo che all’andata vincevamo noi per 3-0.
Oggi c’è pure Di Francesco, alla fine un caro ex, che dopo tre giorni si mette seduto sulla panchina dove c’è stato Valverde: loro due che erano seduti sulle panchine di questo stadio nel “nostro” Roma-Barcellona. Ecco, giochiamo questo Roma-Venezia con questa suggestione, come se fosse una partitona di Coppa dei Campioni, oppure, se sembra esagerato, no: giochiamola con l’idea, la voglia, l’obbligo, la necessità di rincorre per 60 metri l’avversario anche se è il 95’, come un Roma-Venezia, come se avessimo tutto ancora da conquistare davanti. Perché, anche se sembra strano, è così.
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