Cogito Ergo Sud

"Dove eravamo rimasti?"

Da oggi Tonino Cagnucci torna come Direttore Editoriale del giornale. «Lavorare per l’AS Roma è stato l’onore più grande, la Lupa dalla divisa resta nel cuore»

Tifosi allo Stadio Olimpico

Tifosi allo Stadio Olimpico (MANCINI)

PUBBLICATO DA Tonino Cagnucci
01 Agosto 2024 - 07:00

“Dove eravamo rimasti?”. Quando Enzo Tortora tornò in tv quattro anni dopo l’infame arresto che subì la mattina del 17 giugno 1983 si (ri)presentò con queste parole. No, io in questi tre anni non sono stato in galera e per me il 17 giugno e il 1983 restano più che date, coordinate per il paradiso. I tre anni passati alla Roma sono stati un onore, il più grande pensabile per un romanista. Non c’è stato un giorno che varcando la porta di viale Tolstoj non abbia provato l’emozione auto indotta dalla consapevolezza che stavo andando a lavorare per la Roma. Un onore infinito. Enorme. Non mi pareva vero. Una cosa che resta e che nessuno mi toglie. Non me l’ha tolta nemmeno la Roma: non stavo in nessuna lista nera e, come si dice, ci siamo “lasciati” bene, con tutte le virgolette del mondo perché la Roma non potrei mai lasciarla; la Lupa che stava sulla divisa, sta nel cuore.

Certo faceva venire i brividi quella spilletta (ammazza), ma mi mancava scrivere. Credo, dopo tre anni, di poter fare “più Roma” scrivendo piuttosto che facendo lo Slo o occupandomi di “community”, di Roma Club, di inclusività, di sostenibilità, benemerite iniziative di solidarietà,  tra call, allineamenti, sopralluoghi e cose pending da elencare.  L’unica cosa pending che avevo veramente era scrivere. Poi, invecchiando, mi basta Vecchioni a Sanremo che canta “Quando un uomo vive per le sue parole o non vive più” e la scelta viene da sé.  Scrivere di Roma è una responsabilità e una questione sentimentale. Scrivere di Roma per me è stato prima di tutto scelta e sogno, poi mestiere, lavoro, professione, a un certo punto una condizione che è diventata necessità: qualcosa che mi ha connotato talmente tanto anche da precludermi altre strade, e anche adesso c’è solo quella che va nella direzione di un ritorno a casa. Al Romanista, perché anche Il Romanista è una questione sentimentale, è il giornale per cui ho scritto dal primo giorno e che resta un foglio bianco senza vincoli tranne quelli che avverti – dentro - verso la Roma (come essenza, non come azienda). La linea editoriale è quel sentimento, quello del 2004 e quello 2017  e “con quel sentimento lì racconteremo la Roma, criticheremo la Roma, difenderemo la Roma, ci arrabbieremo con la Roma… ameremo la Roma”. La linea editoriale è matematica: la Roma sì, la Lazio no. Il funerale di Losi è un episodio che fa male, la Roma al parco per Antonio De Falchi riempie il cuore. Mentre Rocca con De Rossi fortunatamente è successo quando ancora non potevo scrivere perché è troppo (una specie di Woodstock con i Beatles e i Rolling Stones che fanno da gruppo spalla a non so chi, un’Olimpiade di romanismo a Testaccio).

Il 10 settembre 2024 Il Romanista, questo bislacco ma già storico quotidiano, compie vent’anni. Da quel giorno per 18 anni non c’è stato numero che non abbia visto o contribuito a fare fino alla chiamata a cui non potevo dire di no di Mamma Roma (o della Madre Patria, scegliete voi il mood). Ho svolto il servizio, ho risposto presente.  Ho visto Tirana e Budapest. Tirana e Budapest comunque per sempre.

Nel frattempo Daniele Lo Monaco ha avuto il grande merito di condurre il giornale nel gruppo Globo, facendolo diventare anche una radio. Io e Daniele abbiamo delle cose in comune (un po’ perché ce le hanno tutti) ma su molte cose proprio la vediamo diversamente: per esempio lui apprezza particolarmente il bel gioco, io ritengo Bayer Leverkusen-Roma del 18 maggio 2023 la Cappella Sistina delle partite della Roma (peccato aver fatto al 1’ un tiro in porta); lui non ama il tifo contro, io un pochetto (un po’ tanto) sì; lui sa essere sportivo, io non ne ho nemmeno l’intenzione; ha una visione più alta sulla questione arbitrale e del concetto di crescita giustamente da perseguire senza darsi alibi, io resto quel ragazzino a cui a 10 anni hanno rubato un sogno e bloccato la crescita per il gol di Turone  per cui “posso esse’ ancora un po’ incazzato?” (cit). Più varie ed eventuali.  Romanista-Roma-Romanista non è solo l’itinerario di un ritorno al futuro e una questione di coerenza, di radice, ma esattamente quello che con Daniele, con tutte le differenze, ci ha fatto lavorare insieme, a targhe alterne, da quasi vent’anni: credo che solo sul Romanista io possa scrivere da Direttore Editoriale (il ruolo che ho da oggi) queste cose a quello Responsabile (il ruolo che ha Daniele da quando me ne sono andato). La garanzia di poter scrivere solo vincolato alla propria coscienza. Finché c’è questo, posso cercare di digerire tutti i costrutti sulla costruzione dal basso. Il problema più che altro è Bruno Benvenuti, l’editore con cui mi sono sorprendentemente trovato molto bene (raro trovare qualcuno che ti faccia sentire desiderato come ha fatto e, soprattutto, qualcuno che si comporti da editore puro) perché ovviamente non aveva ancora letto questo editoriale ed evidentemente nemmeno quelli che avevo fatto quando presi e poi lasciai la Direzione, che iniziavano e finivano così: “Quando parlate della Roma dovete stare zitti”. Ora, già non era facile farlo scrivendo, ma mo come faccio a stà zitto in radio? Vedremo. Anche perché resta delle cose che ho scritto tra quelle che ancora più condivido: quando parlate della Roma dovete stare zitti.

La Roma non è mai stata la prima cosa importante fra le cose inutili, la Roma è una cosa importante perché è un sentimento.  La Roma si sente e non si dice, devi avere il garbo del sussurro perché stai trattando una cosa che ogni tifoso sente veracemente e ferocemente sua, anche se la Roma si definisce proprio nella condivisione. Non è mai un caso che il primo striscione della nostra storia l’hanno fatto Francesco e Gioacchino Lalli perché erano sordomuti: riuscirono a esprimere loro che non avevano parole quello che nessuno di noi riesce a dire. Le parole pesano. 

Al Romanista ho fatto quello che volevo, con la Roma quello che dovevo, ora torno a raccontarla cercando di fare il meglio possibile. Solo questo. L’inizio del pezzo è stata un po’ una paraculata (per via delle date) e un’esagerazione (per il paragone), ma citare Enzo Tortora in questo discorso in qualche maniera sopra al (ritorno) al giornalismo mi serve per ricordare quella che per me è una perla del nostro mestiere: un’intervista che Enzo Tortora fece per l’Intrepido ad Agostino Di Bartolomei nel 1980.

“Dove eravamo rimasti?”.
“Alle periferie, al fatto che borgata significhi ancora amicizia e aiuto reciproco, mentre l’indifferenza verso gli altri regna sovrana. Mi sono sentito fiero della mia città quando ho iniziato a studiare e ho scoperto il passato di civiltà che ha Roma, è un orgoglio che mi ha aiutato nei momenti di difficoltà. Non ho mai invidiato quei bambini che vedevo arrivare su quei macchinoni americani che sembrano transatlantici perché mi dicevo che io avevo molto di più. Il sogno dello Scudetto? Arriverà e non sarà quando io sarò nonno. Questo lo posso giurare”.
Dove eravamo rimasti? Lì, sempre lì, Capitano. A quando “un uomo vive per le sue parole o non vive più” come hai fatto tu.

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