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RomAntica - L'intervista, Batistoni: «Io, Ago, la Roma, Liedholm e De Sisti»

Il Barone lo volle con sé nella squadra gialloblù, quindi nella Capitale dove passò tre stagioni, dal 1973 al 1976. «Avevo un bel rapporto con Rocca e Dibba»

PUBBLICATO DA Massimo Izzi
13 Gennaio 2018 - 09:06

L'occasione non è stato affatto fortunata, visto l'esito della gara con l'Atalanta. E anche Alberto Batistoni, nato a San Giuliano Terme il 7 dicembre 1945 e alla Roma per tre stagioni dal 1973 al 1976, alla fine del match si è parecchio rabbuiato. La sua visita romana è stata comunque l'occasione per incontrare vecchi compagni e per una carrellata della stagione sportiva più bella della sua vita.

Ma andiamo con ordine. Batistoni è arrivato a Roma per partecipare all'incontro dibattito sul libro di Pierino Prati "La mia amante giallorossa" (il bellissimo volume biografico realizzato da Alessandro Conforti, Marco Gasparini e Claudio Ciancarini corredato con le fotografie del grande Roberto Tedeschi) tenuto presso l'Auditorium della Banca d'Italia nel pomeriggio del 5 gennaio. Per partecipare all'evento sono intervenuti Pierino Prati, Loris Boni e per l'appunto Alberto Batistoni.

L'ex difensore giallorosso vive da sempre a Pisa. Non ha più la foresta di capelli degli anni '70, ma in compenso porta con aristocratica eleganza un paio di baffi che si era lasciato crescere già nel periodo trascorso al Cesena (1976/77). È gentile, affabile, simpatico e con il chiaro piacere di ritrovarsi nella capitale davanti al terreno dello stadio Olimpico che è stata la sua casa per tre stagioni. Proprio sui seggiolini dell'Olimpico ("Un po' stretti" secondo Alberto), si è svolta la nostra chiacchierata a cui ha assistito Pierino Prati, nascosto dietro uno zuccotto e assorto nell'ascolto degli aneddoti raccontati dal vecchio compagno di squadra. Partiamo dunque quasi dagli esordi, o quantomeno dall'ingresso nel calcio che conta, vale a dire il settore giovanile della Fiorentina.

«Nella Fiorentina – racconta Alberto – ho giocato da Ragazzo e Allievo. A quei tempi si andava nella società professionistica quando c'era già una certa maturità e devo dire che non c'era nemmeno l'abitudine di rimanere cinque o sei anni come magari accade oggi. Per esempio io, durante il periodo di appartenenza al Club viola, mi sono spostato due volte. Ho fatto un anno di prestito al Pontedera, poi sono tornato e sono stato nuovamente distaccato al Cuoiopelli. Una volta rientrato in viola ho fatto la De Martino con la Società Gigliata, che paragonerei un po' alla Primavera di adesso, anche se in effetti non si trattava di una Primavera, ma di una vera e propria squadra riserve, dove capitava di giocare anche con i calciatori di prima squadra. Insomma era una grande palestra in cui si respirava effettivamente l'atmosfera agonistica che ci si preparava a vivere».

In viola tu hai avuto Egisto Pandolfini: che ricordo ne conservi?

«Pandolfini a quei tempi era Direttore Sportivo. Diciamo che dal punto di vista sportivo, devo essere sincero, non credeva molto e nelle mie capacità, ma forse questo era dettato anche da una certa situazione che si era creata. L'ultimo anno che feci in viola, nel 1966/67, la stampa specializzata spingeva perché io dalla De Martino debuttassi in Serie A. Giuseppe Chiappella, che era l'allenatore, però, non era dello stesso avviso. Tra l'altro su questo posso raccontare un aneddoto che è abbastanza significativo. Ho debuttato in serie A in un Napoli-Verona e come allenatore del Napoli c'era proprio Chiappella. Ci siamo incontrati prima della partita nello spazio in cui si riscaldavano le squadre. Ci siamo salutati e a un certo punto sai che cosa mi ha detto Chiappella? "Non pensavo mai di vederti su questi campi". Pensa un po'. E lì ho fatto una partita bellissima perché ho marcato prima Harald Nielsen e nel secondo tempo Altafini. È andata benissimo. Negli anni a venire ho incontrato ancora Chiappella che si salvò un po' dicendomi che evidentemente ero un giocatore che maturava anno dopo anno».

Lasciato Chiappella, hai incontrato "il Messia del Calcio", Nils Liedholm. È stato lui il primo ad apprezzare le tue doti e devo dire che questo cancella ogni eventuale sottovalutazione del passato.

«Liedholm mi vide personalmente alle finali della Coppa De Martino e mi richiese per il Verona che allenava in quella stagione. Venni chiamato per disputare un'amichevole con la Dinamo Kiev: Pandolfini mi accordò il permesso di andare a giocare questa amichevole, ma mi fece accompagnare da Piero Lenzi e da una lettera, indirizzata a Liedholm, nella quale suggeriva al Barone di valutarlo per il ruolo di stopper. Liedholm la lesse davanti a me, ma fu irremovibile e mi fece giocare. Poi nel secondo tempo fece entrare anche Lenzi, ma io rimasi in campo per tutti i 90 minuti. Nella ripresa il Barone mi fece cambiare attaccante, mi vennero affidate le cure di una punta piccola e veloce. Sono stato fortunato perché sono piaciuto e lì è iniziata veramente la mia carriera».

Qual è, al di là della riconoscenza sportiva, il tuo ricordo di Liedholm?

«Era uno che sapeva essere molto gentile, ma all'occorrenza anche molto duro. E lo era anche in campo. Nelle partitelle infrasettimanali giocava sempre assieme a noi: una volta mi è venuto sotto e purtroppo gli ho dato un calcio nella tibia e gli ho aperto un taglio. Ha fatto un urlo. Poi si è tirato su e ha detto: "Va bene", e ha continuato a giocare. Era un grande insegnante soprattutto di tecnica: con lui se ne faceva molta. Era convinto fosse la cosa più importante, perché se sei preparato tecnicamente puoi affrontare qualsiasi situazione. E quell'anno venimmo in serie A. Devo dire che allora era anche un grande amante dei ritiri, gli piaceva che la squadra stesse insieme e anche a Roma eravamo sempre a Grottaferrata in ritiro».

Hai fatto in tempo a giocare con Liedholm in quelle partitelle di allenamento, che ricordi hai dello svedese come giocatore?

«Ci faceva disporre in un cerchio molto ampio attorno a lui: si metteva al centro e ci faceva dei lanci che bisognava controllare con stop e rilancio. Il mercoledì facevamo una mezzoretta di questa roba e lui non sbagliava di un centimetro. Noi sbagliavamo, ma lui no».

Dopo un brutto infortunio al menisco, ti sei rimesso e sei arrivato a Roma. Come andarono le cose?

«Fu un brutto infortunio: anche i luminari del settore non ci capirono molto e nell'ultimo anno a Verona giocai veramente poco. Ebbi però la fortuna di fare una partita contro il Cagliari marcando Gigi Riva e feci un figurone. Allenatore del Cagliari era Manlio Scopigno che si sarebbe trasferito alla Roma. Quella mia prestazione evidentemente gli rimase impressa e chiese il mio acquisto».

È vero che quando ti dissero che dovevi andare a Roma eri convinto di essere stato acquistato dalla Lazio?

«(sorride) Ti spiego. Io dormivo con mia moglie al piano superiore di una palazzina. Sotto c'era mia suocera. Una mattina venne a bussare a casa e mi disse: "Alberto, ti hanno venduto e vai a Roma. Indovina dove". Io mi ricordai di una dichiarazione di Maestrelli che aveva avuto belle parole per me e dissi: "Lazio". "No – mi disse mia suocera – hai sbagliato è la Roma". Ed è andata benissimo, perché a Roma mi sono trovato benissimo. Andai a vivere a Via della Camilluccia, un bell'ambiente, una bella casa. Poi sono un tipo abbastanza tranquillo ed è stato facile inserirsi».

Però hai dovuto raccogliere un'eredità non facile, quella di Aldo Bet che era molto amato dalla tifoseria.

«Era quello il problema, sì. Era una grande responsabilità. Poi all'inizio c'erano delle voci secondo cui io ero "rotto". E inizialmente sembrava che non dovessi neanche giocare. Invece Scopigno aveva un debole per me. Pensa che una volta mi disse che voleva cambiarmi ruolo per farmi giocare libero: "Ti allungo la carriera di cinque anni". Ma libero nella Roma c'era Santarini che era fortissimo e io gli dissi: "No, Mister, gioco stopper"».

Esonerato Scopigno, arrivò Liedholm, ma fu un anno un po' sofferto, eppure i giocatori c'erano, eccome.

«C'era Cordova che aveva una tecnica veramente… Poi l'anno del terzo posto riuscimmo anche a trovare un equilibrio. Anche perché c'era questo signore qui (indica Prati), che faceva gol. E quell'anno, con il Torino, perdemmo due volte con i granata prendendo 4 pali. Bastava vincere una di quelle partite e avremmo lottato per il titolo. Ne sono convinto. Avevamo una bella difesa. Poi c'era De Sisti che era il catalizzatore in mezzo al campo, sapeva fare la fase difensiva e impostare. Io avevo un grande rapporto anche con i giovani, Rocca e Di Bartolomei. Di Rocca mi è rimasta impressa la velocità. Arrivato sul fondo non crossava, rientrava sempre e poi crossava. Un po' era un suo modo di fare, ma soprattutto il motivo era che nessuno riusciva a stargli dietro. Una volta con Muraro, Francesco buttò la palla da un lato e la riprese dall'altro… e Muraro era un velocista. Una cosa impressionante. Un giocatore come lui non esisteva».

E Agostino?

«Era un ragazzino allora, mi voleva bene. Aveva uno sponsor tecnico che gli dava le scarpe e lui le regalava a me. Pensa che rapporto che c'era...».

Le partite che sogni ancora oggi?

«I derby contro Chinaglia e una partita contro l'Inter in cui mi misi anche ad impostare, cosa che facevo raramente».

Il più grande contro cui hai giocato?

«Difficile… Diciamo che Riva è stato immenso e mi piaceva per il suo modo di prendere le botte, e anche darle, senza mai una polemica. Era correttissimo. Poi ricordo Pelè… Un Fiorentina – Santos in cui venne marcato da Guarnacci e fece delle cose indescrivibili. Lui credo sia stato il più grande di tutti i tempi. Poi ricordo anche Bobby Charlton e Gerd Müller… Una volta feci una scommessa con Gianni Bui: giocammo contro il Bayern, e lui mi disse che se non avesse segnato mi avrebbe regalato un televisore. Il Bayern vinse, ma Müller non segnò e vinsi questo televisore».

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