Giorgio Rossi per sempre
Quattro anni fa ci lasciava uno dei volti più belli della Roma. Lo ricordiamo con questa intervista di Tonino Cagnucci
Il 23 settembre del 2018 se ne andava Giorgio Rossi, letteralmente una vita passata con la Roma e per la Roma. Vogliamo ricordarlo con questa intervista fatta dal nostro ex direttore, Tonino Cagnucci, che Giorgio conservava con cura.
«Però non scrive che so' la Roma…». No, no.
Giorgio Rossi arriva e porta un'enciclopedia della Roma. Alle 9 è già pronto. A via Tuscolana c'è un bar all'angolo: «Qui ci vivo da tanto». Si vede; quasi ognuno che passa dice: «Ciao Giorgio», «Ciao Gio'…» oppure, che è più significativo: «Guarda quello è Giorgio Rossi, il massaggiatore della Roma», detto da uno che comincia andare in Curva Sud adesso, alla ragazza, per farle capire la cosa. Per capirsi: generazioni romane che girano l'angolo, a via Tuscolana. «Io però sono nato al Colosseo, proprio in via Labicana. Vengo da una famiglia di infermieri, mio padre era un infermniere e mia mamma anche. E c'era la Roma. E' nata un po' prima, ma c'è sempre stata».
Sempre stato romanista?
«Sempre, sempre. C'è stato un periodo che mi hanno portato a vedere la Lazio, pensa. Erano i primi anni 50, un Lazio-Napoli: non m'ha fatto nessun effetto. Hanno pure perso. La Roma l'andavo a vedere sempre in curva, naturalmente, perché i tempi erano quelli che erano».
Prima di andare a vedere la Roma, c'era la guerra.
«La fame, mi ricordo la fame. La nostra era una famiglia numerosa, zia aveva quattro figli maschi, c'erano otto uomini in casa, allora era molto pericoloso uscire da casa: zio era anarchico, non aveva la tessera del partito ed era un problema. Sotto casa c'era proprio la caserma dei carabinieri. Vivevamo un po' da reclusi. Però nel '44 avevo 14 anni, i tedeschi non mi hanno preso, portavano via quelli un po' più grandi, c'era un'organizzazione apposta».
Poi la guerra è finita: l'Italia cerca lavoro, il pallone torna a giocare. Ladri di Biciclette fuori, mentre dentro si gioca Roma-Modena. Com'è (ri)cominciato tutto?
«Non ci si diplomava da massaggiatore. I massaggiatori erano tutti ex pugili o infermieri, anche lo stesso Angiolino Cerretti, il grande massaggiatore della Roma; anche Roberto Minaccioni, un altro massaggiatore storico. Io in quell'epoca ero vigile del fuoco. Successe che trasportai un ferito al San Giovanni, dove incontrai Minaccioni che mi conosceva e mi propose di andare a fare un torneo a Sanremo, perché non gli davano le ferie. E da lì…».
Da qui comincia tutto.
«Andai al campo di via Sannio, mi consegnarono come prima cosa invece della cassetta con i medicinali, la cassetta con martello, tenaglie, pompa per gonfiare il pallone e il famoso tiralacci, perché i palloni avevano i lacci. Così ho iniziato a fare il massaggiatore della Roma. Da quel gruppo uscirono Orlandi, Compagno, Scaratti. Due romani e uno di Torrimpietra, io li voglio ringraziare. Poi c'è Guarnacci; Egidio è un mio grande amico anche se parlo di un altro perido. E Giacomo Losi, Amedeo Amadei. Sono quelli che sento più spesso. Se parliamo della storia della Roma questi vanno subito scritti. Scrivili».
Losi, Amadei, Guarnacci, Rossi…
«Non mi mettere in mostra».
E' appena diventato massaggiatore, è appena il 1957:
«Divento massaggiatore del settore giovanile. Una vita pure quella. Ci sono stato tanti anni, ho avuto tanti allenatori, da Bravi, Trebiciani, De Angelis, e poi … Io li devo ricordare (<+corsivo>apre l'Enciclopedia, ndr<+tondo>). La Primavera vinceva tanto negli Anni 70, coppe e scudetti, una volta ha vinto sia il campionato che la Coppa Italia».
Era quella di Di Bartolomei capitano?
«Agostino è sempre stato capitano».
"Ciao Giorgio, come stai?", "Bene bene". C'è sempre il sole, l'Enciclopedia in mano: la storia da raccontare.
«Allora, parliamo dei presidenti».
I presidenti.
«Io li ringrazio perché mi hanno dato l'opportunità di lavorare per la Roma, ognuno di loro ha fatto tanto per me (gira pagina, ndr). Eccoli. Di Gianni, Anacleto ricordo l'umanità, la cosa umana. Di Evangelisti ricordo un'altra cosa: quando mi chiamò per dirmi di andare in ritiro con la prima squadra, a Campobasso. Stavolta ero io che avevo problemi di ferie perché continuavo a fare il vigile del fuoco. "Non ti preoccupare di questo", mi disse. All'epoca, come dicono a Roma , era il sottopanza d'Andreotti… Nel '61 ho smesso di fare il pompiere e sono diventato infermiere, ho lavorato in camera operatoria, mi ha aiutato molto nel mio lavoro. Nel pronto soccorso».
Così ha salvato la vita a Lionello Manfredonia.
«I presidenti della Roma non sono finiti»
I presidenti della Roma.
«Di Alvaro Marchini mi ricordo dei cori un po' pesantucci: "Alvaro Marchini….". Aveva venduto Capello, Spinosi, Landini, ma il bilancio era quello che era, io lo sapevo. Anni prima c'era stata la colletta del Sistina. Con Marini Dettina c'era un rapporto di rispetto. Misa che era un conte. Quello intenso è stato con Anzalone perché era stato anche presidente del settore giovanile. Ha cominciato a costruire Trigoria, all'epoca era campagna, ho un ricordo piacevole, ci si arrivava bene, senza traffico. Viola l'ha fatta grande».
Anche la Roma. Dino Viola.
«Il Presidente non solo controllava le luci, quello che le spegneva per ultimo a Trigoria… è quello che hanno sempre scritto per farlo capire, no? Ma Dino Viola per me era quello che guardava le piante, controllava se gli alberi crescevano bene, altrimenti non avrebbe pagato i giardinieri. C'era la Signora Flora a Trigoria. Ho una dedica di Viola, di riconoscenza per il lavoro…».
Un po' di silenzio.
Il presidente Franco Sensi.
«E' eccezionale. Il fatto che si è spostato di notte per andare a prendere la squadra a Fiumicino è un gesto grandissimo di amore. Io lo ringrazio perché mi fa lavorare con la Roma».
Come potrebbe essere altrimenti?
«Beh, ogni volta mi scade il contratto».
Come potrebbe essere altrimenti?
«Io no, io non c'ho mai pensato a lasciare la Roma. Come ti spiego? Hai visto quando non l'immagini? Mai, perché ormai era entrata, come si può dire.. quando una cosa ti entra nel sangue. Ma i presidenti li abbiamo ricordati? Ciarrapico, Di Martino…».
Sì. Gli allenatori sono troppi di più. Uno è stato Helenio Herrera.
«L'ho conosciuto quando stavo nel settore giovanile, c'era il campionato De Martino un misto tra Primavera e prima squadra. Lui era burbero, anche spigoloso, era un personaggio».
Discusso.
«Io Mario Brozzi lo ringrazio anche perché ha fatto un protocollo per cui i nostri giocatori non possono proprio prendere niente. Una volta Herrera si presentò per una finale giovanile Roma-Juventus, l'allenatore era Trebiciani. Prima della partita diede a ogni ragazzo una bustina di zucchero, diceva. Il portiere saltava sopra la traversa, la nostra ala andava a crossare cinque metri dopo la linea di porta. Tra il primo e il secondo tempo i ragazzi cominciarono a sentirsi male. Io il doping non l'ho mai fatto entrare. Eppoi a uno come Rocca che je volevi dà? Rocca, è stato uno dei più grandi della Roma: in Primavera, ogni partita che faceva costringeva il suo avversario diretto a uscire».
Poi uscì lui, per infortunio. Giuliano Taccola una volta per sempre.
«So la storia. So di una puntura fatta di un antibiotico, quello sì. La storia triste di Giuliano».
La Storia ha queste storie, pure quella di Lionello Manfredonia che a Bologna rischiò di morire:
«Quel giorno Bruno Conti gli disse: "Guarda come sei pallido, sei proprio dei Parioli. Invece io so'tutto colorito perché vengo da Nettuno". Invece gli si fermò il cuore. Gli feci il pronto soccorso, riuscì ad aprirgli i denti, li aveva serrati, come un trisma. Glieli aprii con delle forbici. Da dopo Manfredonia c'è il Pronto Soccorso attivo negli stadi. Almeno ci dovrebbe essere».
Gli infortuni.
«Quello di Nela, di Totti, i due di Carlo Ancelotti.Carletto… E' della Roma ancora. Una volta col Milan, quando venne all'Olimpico mi prese sotto il braccio, mi disse: "Vieni co' me Gio'", mentre andava sulla panchina del Milan. "No, Carlo, io giro' a sinistra". Ecco poi…».
Mette la mano sopra l'Enciclopedia, la chiude.
«E' stata una gioia superiore alla media la vittoria di Carlo contro il Liverpool. Non contava il Milan, è che c'era il Liverpool. Io l'ho vissuta come una vendetta…».
30 maggio 1984, Roma-Liverpool.
«Strukelij magari avrebbe segnato, non si saprà mai… Stava per andare a tirare, ma era troppo giovane… A Roma c'era la Festa. Dopo, lo spogliatoio distrutto. Io conservo una foto con Bruno Conti e Falcao, stavano nella vasca e non dicevano una parola. Nessuno parlava. Nessuno ha parlato per tutto il tempo dopo. Solo Agostino si arrabbiò, non mi ricordo con chi, ma si arrabbiò moltissimo. Non dovevamo perdere. Quella notte io mi ricordo Agostino arrabbiato. Dicono Roma-Lecce, non c'è confronto…».
Ancora un po' di silenzio, perché le generazioni romaniste continuano a girare l'angolo di via Tuscolana. "Giorgio sei in vacanza adesso è?". "Ma a Trigoria a luglio non fa caldo?".
«Senti, gli allenatori non li abbiamo finiti, non scordarti niente».
Gli allenatori:
«A Carlos Bianchi stavano antipatici i romani, per questo Totti lo stava per mandare via. Faceva tre allenamenti la mattina e faceva alzare i calciatori alle 7: a Carboni e a Cervone non andava a genio… Eriksson era il più tattico, era quello di "Acqua poi qui": non parlava per niente l'italiano, mi chiedeva la borraccia così. Zeman? Zeman è uno tosto, la sua squadra poteva essere un orologio, diceva anche a me: "un gol più degli altri", ma nel calcio qualche volte questa cosa non capita. Capello era molto professionale, totalmente rispettoso dei ruoli. Voleva i campioni, il suo segreto erano Galbiati e Neri. E tra il primo e il secondo tempo faceva paura».
Che succede nell'intervallo delle partite?
«Parla l'allenatore, parla soltanto l'allenatore, Capello era quello che si faceva più sentire. Dopo invece si danno pacche, si ringrazia o si discute, nell'intervallo io non dico una parola. Eppoi Scopigno il filosofo, Boskov, Ottavio Bianchi, Pugliese, Masetti che è stato il primo quando sono arrivato nelle giovanili e il secondo di Pugliese. Li ricordo tutti con affetto e riconoscenza, ho lavorato sempre bene con tutti. Mazzone che appena arrivò mi disse: "Aho! tanto lo so che c'hai i cocchetti tua, me raccomando falli riga' dritto e digli che il mister vede e sa tutto pure se non è vero". Eppoi Giagnoni».
Gustavo Giagnoni?
«Prima di fare la foto di gruppo, mi disse una cosa preziosa: "Io mi metto a destra così se mi mandano via la foto si può tagliare". E' una cosa che m'è rimasta, era di una umanità grandissima»
Eppoi Nils Liedholm.
«Un rituale. Probabilmente è vero che dentro le tasche aveva gli amuleti, io non gliel'ho mai messe la mani in tasca, però ho visto tutto il resto. Ogni volta ci portava da Mario Maggi, il maghetto suo. Col pullam andavamo in ritiro vicino alla casa del mago, che era dalle parti di Milano. Ci portava proprio in ritiro lì perché così eravamo influenzati positivamente, diceva. Il ricordo del Barone è che era micidiale nelle battute. Una volta disse a Falcao che era stato tutta la settimana fermo: "Caro Paulo come stai?", "Bene, mister", rispose. "Bene, allora ce la fai a salire le scale per andare in tribuna". Glielo disse poco prima di una partita, perché il Barone dava le formazioni solo all'ultimo momento, negli spogliatoi: "tu jochi, tu non jochi". Una volta fece la formazione dopo avermi chiesto 11 foto dei calciatori, le apparecchiò sul tavolo e disse: "Jocheremo proprio così". A quel punto era il momento in cui io e Fernando Fabbri dovevamo dare le maglie ai calciatori».
Un altro rituale.
«Liedholm, che aveva sempre il cappelletto portafortuna regalatogli da Perinetti, quello col pon-pon alla fine, si portava la bottiglia dell'acqua santa di un santuario vicino Roma. Successe che una volta ci cadde per terra, si ruppe, la riempimmo con acqua fresca e le maglie furono benedette con quest'acqua del rubinetto. Mi ricordo sempre che i giocatori quando si mettevano la divisa dicevano sempre: "Ma come mai è così umida?". "E' l'umidità del pulmino", dicevamo. Non l'hanno mai saputo».
Gli allenatori: Paulo Roberto Falcao.
«Falcao è stata la mossa geniale della storia della Roma, ci faceva camminare tutti perché lui stava sempre al posto giusto. Falcao è Falcao, non è in discussione».
I giocatori: Bruno Conti.
«Un pezzo di cuore».
Roberto Pruzzo.
«Eccezionale. Brontolone sì, e tanto, tantissimo, spilorcio no. Avevamo un contratto, una tassa fissa che mi pagava: ogni gol che faceva mi dava 50.000 lire. Una volta m'ha sganciato un assegno da un milione. Io sono legato a tanti giocatori…».
Va a memoria. Riapre l'enciclopedia della Roma, è costretto a leggerne tre quarti. Apre alla lettera G.
«Ah Gerolin, Manuel. Quando Radice perse un dito e indicava con la mano: "cinque in barriera", lui gli diceva: "mister ma so' 4". Gautieri, il gaucho. Guarnacci! Guarnacci l'hai scritto prima? Giannini, Peppe è speciale»
E' uno dei capitani e si mette a citarli tutti. Racconta mille storie di Santarini, e di Bet e Santarini, e allora, questione di zona di campo e di zona e basta, c'è pure Ramon Turone e il ricordo di 20.000 romanisti sotto la pioggia a Torino. E tutti gli stranieri, i brasiliani, Cerezo che era uno spasso; e tutti gli argentini, e pure Bartelt. E Tommasi e Di Francesco un po' più degli altri. Tancredi invece che è sempre e solo romanista. Voeller e Haessler che «bevevano un bicchiere di birra prima di andare a dormire». Gianluca Signorini che adesso ha gli occhi chiusi. E prima di andare a dormire Di Bartolomei che scherzava con lui in ritiro.
Agostino Di Bartolomei.
«L'unico che piegava i calzini a fine partita. E' il capitano».
Il capitano vero?
«Il capitano».
Stop, prima di un altro giro dei ringraziamenti, della riconoscenza, del Racconto: tutti i nomi dell'Associazione Sportiva chiamata Roma. I direttori sportivi, i direttori generali, i medici, i magazzinieri, anzi, soprattutto loro:
«Timperi e Vagni, i miei collaboratori, li chiamiamo i "pericolosi"».
E Superchi che prima se l'era dimenticato ma che chiamava "ciocio":
«Ha giocato pure nella Roma campione». La Roma campione…
Giorgio Rossi, cos'è la Roma?
«Una grande società… Adesso abbiamo una grande squadra che può farci contenti».
Quando è stato più contento?
«Quello scudetto che aspettavamo da 41 anni: ho visto tanta felicità negli occhi delle persone in quei giorni».
La partita perfetta.
«Roma-Dundee».
Il derby.
«La partita del calcio».
La Roma è adesso…
«Musica nello spogliatoio, non per modo di dire, ma perché i ragazzi la mettono continuamente. Mexes è l'allegria, Totti il più grande di tutti anche se per me è quel ragazzino timido e rispettoso che ho conosciuto quando era alto così. De Rossi è tipo Cerezo, ha il cuore grande grande. M'ha abbracciato. Aquilani, Curci, tutti, ma tutti davvero. E Spalletti ha fatto suonare l'inno della Roma a San Siro, mi ha portato addirittura in conferenza stampa anche se io non voglio apparire».
Se potesse cosa regalerebbe alla Roma?
«La Coppa dei Campioni. Quest'anno ci siamo andati vicini. Se passavamo col Manchester… Questo è un gruppo che mi ricorda quelli che hanno vinto lo scudetto. c'è quel sapore».
Giorgio Rossi che cos'è la Roma?
«Tanto…».
Tutti i nomi che s'è sforzato di fare, tutti quelli che ha voluto dire anche richiamando dopo al giornale, tutte le persone che si sono fermate all'angolo di via Tuscolana. Anche un papà che l'ha indicato al figlio "grandicello", gli ha detto: "Lo vedi? Lui è Giorgio Rossi".
La Roma.
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