Alberto Orlando: "Vi racconto il primo gol romanista in Turchia"
Con l’Altay nel ’62 segnò la prima rete ufficiale giallorossa contro una squadra turca: "Eravamo tosti e attaccati alla maglia. Quando decisero di cedermi fu un trauma"
Il primo gol della Roma in terra turca porta la sua firma: Alberto Orlando, classe 1938, oltre 130 presenze e più di 30 gol con la maglia giallorossa. Era il 26 settembre 1962, a Istanbul, e contro l'Altay Izmir andavano in scena i sedicesimi di finale di Coppa delle Fiere. Era la Roma di Losi, De Sisti e Orlando. Era la squadra campione in carica che si sarebbe fermata solo in semifinale, contro il Valencia, che poi vinse quella edizione.
In Turchia finì 3-2 per noi, mentre il ritorno fu addirittura da record: 10-1 per la Roma. E ad aprire le danze fu proprio l'attaccante di Torpignattara. Con un gol che il giornalista Mario Pennacchia, all'epoca inviato, descrisse così: «De Sisti, con una sciabolata da sinistra, pesca Orlando. L'ala si catapulta e Varol si tuffa, ma Orlando lo infila con un pallonetto inesorabile». E in attesa di Trabzonspor-Roma, Alberto Orlando torna a raccontarsi.
Se la ricorda quella partita contro l'Altay?
«La ricordo bene, finì 3-2, segnarono anche Lojacono e Menichelli. Fu una bella partita. Arrivare fino in Turchia poi non era facile. Prima si viaggiava con il pullman, con il treno; l'aereo si prendeva una volta ogni tanto. E si viaggiava in pochi: i giocatori, l'allenatore, un preparatore e poche altre persone. Sembrava un altro calcio».
E forse lo era. Quant'è cambiato rispetto a oggi?
«Sto leggendo adesso dei debiti del Barcellona: 1.350 milioni. Sono cifre che mettono paura. Prima era diverso, anche i contratti erano tutta un'altra cosa: bastava una stretta di mano col presidente».
A proposito di questo, qual è stato il suo inizio con la Roma?
«Io sono nato a Torpignattara, un quartiere di periferia, popolare, che per alcuni aspetti era anche un rione difficile. Venivo da una famiglia umile, avevamo appena passato la guerra. Sono del 1938: i bombardamenti su Roma me li ricordo bene. Ho pure rischiato la vita per le schegge di una bomba. Poi per fortuna è arrivata la Roma, che mi ha cambiato la vita. Ho fatto tutta la trafila delle giovanili: Roma C, Roma B, Roma A e infine il primo contratto, un rimborso spese di 20mila lire. Poi, visto che ero un po' magrolino e avevo bisogno di mettere su muscoli, mi diedero la possibilità di scegliere quello che volevo in una macelleria vicino casa. Fu una svolta per me e per tutta la famiglia».
L'esordio con i grandi, invece, come è arrivato?
«Prima c'era il campionato delle riserve, si giocava di giovedì. In campo ci andavano i giovani e poi alcuni della prima squadra che venivano provati per l'impegno successivo. Giocammo a Napoli e feci una bella prestazione. Tanto che i giornali mi chiamarono "il piccolo Vinicio", come l'attaccante brasiliano degli azzurri. Per me fu una gioia incredibile. Poi la domenica si giocava la Serie A e mi chiamarono. L'allenatore era Mister Stock, che però sparì, forse si dimise. Fatto sta che al suo posto in panchina andò Gunnar Nordahl».
Che però era ancora attaccante e lasciava un buco in rosa...
«Stavamo facendo il giro del campo prima della partita, per vedere com'era il terreno. A un certo punto mi chiamano negli spogliatoi. Scendo e mi fanno: "Orlando, si spogli". Io non capivo. "Che faccio, resto in mutande?" gli dissi. "No, lei deve giocare ecco la sua valigia"».
Che squadra era la Roma di quegli anni?
«Una squadra bella, tosta. Dove contava soprattutto una cosa: l'attaccamento alla maglia, ai colori. Poi una cosa importante è che c'erano tanti romani. C'eravamo io, Francesco Scaratti, Egidio Guarnacci, Giampaolo Menichelli, di Portuense, che dalla Roma andò alla Juventus. Eravamo tutti ragazzi, tutti giovani e giocavamo per la Roma. Capito che vuol dire? Ero il centravanti della Roma».
Poi però divenne ala destra.
«Sì, fu quando arrivò Manfredini. Ma l'amore per la Roma era tale che accettai di lasciare il ruolo, di mettermi a destra. Ma sono sempre stato centravanti. A Messina, al primo anno in prestito per fare esperienza, feci 17 gol, come alla Fiorentina, quando vinsi la classifica marcatori».
Quanto è stato difficile lasciare la Roma?
«Per me è stato un grande dolore. Anche per il modo in cui l'ho scoperto: ero in viaggio di nozze, la sera torno in albergo, accendo il notiziario e sento: "Orlando venduto alla Fiorentina". Non ci volevo credere e non capivo il motivo. Fu un trauma, ma la mia carriera è continuata e la Roma mi è rimasta comunque nel cuore».
Dopo la Fiorentina e dopo un anno di Torino, è arrivato il Napoli.
«E lì c'era gente come Altafini, Sivori, Zoff. Nomi che ti mettevano paura. Ma a Napoli c'era soprattutto mister Pesaola, tra i migliori che ho avuto. Dolce, affettuoso ma anche esigente. Arrivavamo un'ora prima dell'allenamento e quando finiva non volevamo andarcene. Quando se ne andò da Napoli c'erano calciatori che piangevano. Aveva la capacità di leadership che ho rivisto in Roberto Mancini».
A proposito di Nazionale e di Turchia, lei detiene il record di quattro gol all'esordio in maglia azzurra.
«E chi se lo scorda! Quattro gol io e due Rivera. Ma in molti l'hanno dimenticato. Quando abbiamo giocato con la Turchia, all'inizio dell'Europeo, non ho sentito nessun ricordo, nessuna chiamata dalla Federazione».
Torniamo agli allenatori e alla tattica. Com'erano i difensori di quel tempo?
«Erano tosti. Quelli più difficili furono senza dubbio i laterali dell'Inter. Erano gli anni di Helenio Herrera, il primo a usare i terzini offensivi. Dovevamo rincorrerli e mica era facile. Ci pensò mister Carniglia a prendergli le misure: colpivamo quando l'esterno era salito. Dopo due-tre volte che facevamo così, Herrera diede di matto.
Quell'Herrera che ha vinto la Coppa Campioni con l'Inter, proprio come un certo Mourinho...
«Era ora che la Roma avesse un allenatore del genere. È giusto investire sui calciatori, ma bisogna anche investire sul tecnico. E la sua carriera parla da sola. Basta guardarlo in faccia, osservare come vive la partita. Alla Roma serviva proprio uno così».
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