Luciano, l'alchimista
Spalletti ha disegnato alla prima uscita una squadra che è un capolavoro. Frutto della sua essenza da contadino che sa mettere ogni fiore al suo posto. E ora la Spagna
Luciano l’alchimista è lo spot migliore possibile per la scuola degli allenatori italiani. Luciano l’alchimista non allena e basta, Luciano plasma, modella, scompone e ricompone, tratta la materia come un gioielliere le gemme più preziose, cura i fiori e il prato che li accoglie, pettina la sua bambola con amore, cucina gli ingredienti con la sapienza di uno chef raffinato e impiatta pure nella maniera più elegante possibile, e cura gli arredi del locale, e le finiture, e l’illuminazione, e l’insegna e persino il decoro della via: non sfugge nulla a Luciano l’alchimista. Perché con questa Italia sta realizzando un piccolo capolavoro ed è opportuno che ce se ne accorga presto. Dopo potrebbe essere troppo tardi, sia nel bene, se sarà riuscito addirittura a coniugare i risultati con questo miracolo estetico che ci sta regalando, sia nel male, perché il calcio sa essere spietato e può bastare davvero un rimbalzo strano del pallone per privarlo della soddisfazione che meriterebbe già. Luciano l’alchimista è davvero al lavoro per noi, come da tratti immaginifici delle sue conferenze stampa, è quell’eroe che gli italiani aspettano, è il demiurgo che sistema l’universo in un ordine più logico, è Caronte che traghetta le anime dei suoi giocatori da una sponda all’altra della conoscenza, è Raffaello che scolpisce e dipinge. La sua Italia è qualcosa che non si era mai visto prima, e tanti saluti a quelli che dicono che nel calcio non si inventa niente.
Luciano l’alchimista ha del contadino quell’apertura sentimentale nei confronti della bellezza del pianeta e dell’imprenditore la visione geniale della bozza che diventa brevetto. Poveri noi preoccupati dalla confusione che avrebbe potuto ingenerare nella mente dei giocatori con i suoi discorsi sul sistema di gioco fluido, sulla difesa a tre che può essere a quattro e viceversa, sui costruttori e gli invasori, sugli incursori e sui cinque trequartisti. Aveva un blocco, sì, ma di una squadra, l’Inter, abituata a giocare in un modo, anche molto produttivo, ma bloccato su un asse straniero intraducibile per la Nazionale e su un sistema immobile. Non a caso tra i fiori più belli di questo giardino abbiamo colto la riserva di quella squadra e un altro pischello appena sbocciato eppure subito preso e trapiantato e annaffiato e sostenuto. Frattesi e Calafiori sono cresciuti a Trigoria, lì dove il ponentino a volte stordisce, ma poi in realtà fortifica le radici, ci ha aggiunto Scamacca, e Pellegrini, che parlano la stessa lingua non solo tecnica, e poi ha chiamato gli specialisti dei ruoli laddove aveva bisogno di certezze, con Donnarumma e Bastoni, con Jorginho e Barella, con Dimarco e Chiesa, ognuno con un compito diverso, ognuno messo in condizione di attaccare e difendere secondo proprie attitudini: e quindi Chiesa ha le spalle coperte da Di Lorenzo, Jorginho non ha estenuanti compiti difensivi, Barella va a mordere le caviglie del difensore centrale e costruisce a metà campo, Bastoni fa l’Acerbi con undici anni di meno, Dimarco è un’ala, un terzino e un regista. E Pellegrini difende sul terzino e attacca da centrale, Frattesi è sempre in area ma non lo vedono arrivare, e Calafiori gioca tranquillo come quando sbalordiva a Trigoria.
Ora ci si sbatte per capire chi giocherà, chi verrà confermato, chi subentrerà. Ma è uno sbattimento inutile: conta il giusto, cioè niente. Come fai a capire quello che hai in testa Luciano l’alchimista, all’anagrafe Luciano Spalletti? Che poi bisogna vedere quale anagrafe visto che un po’ se lo litigano vari paesi, quello di nascita (Certaldo), quello in cui è cresciuto (Sovigliana), quello dove s’è fatto ragazzo (Montespertoli) e quello che ha scelto per vivere (Montaione). Sono le sue terre, quelle che ama coltivare, dove ama veder scorrazzare i suoi animali, che cura personalmente quando gli impegni del calcio non lo portano lontano dal suo paradiso. Ma è proprio lì che nascono i suoi capolavori, e in carriera ne ha regalati tanti, anche se l’ultimo, quello di Napoli, è quello che gli è valsa la consacrazione definitiva. A Roma non è arrivato al top, ma al netto della brutta storia vissuta nell’epilogo della carriera di Totti, le cui responsabilità sono varie ed equamente distribuite, anche dalle nostre parti ha mostrato tutte le sue qualità, nella prima come nella seconda esperienza.
Uno dei problemi del nostro calcio è che i capolavori vengono riconosciuti solo quando il rimbalzo del pallone va nella direzione giusta. Se assume quella sbagliata non c’è consacrazione da riconoscere. Si svilisce tutto, come potrebbe finire tutto se la Spagna coglierà il lato giusto del rimbalzo e l’Italia no, stasera a Gelsenkirchen. Sarebbe ingiusto, ma potrebbe essere, così come molti troveranno premature queste parole. Ma come si fa a non riconoscere la bellezza della squadra che abbiamo cominciato ad ammirare sabato sera a Dortmund? Come ignorare il tratto deciso del pittore, dello scultore, dello scrittore, capace di armonizzare tante anime diverse in un’ unica sinfonia che in qualche caso è risuonata celestiale? Dicono: hai battuto l’Albania di misura, dove sarebbe il miracolo? E pensa, si dovrebbe rispondere, che potevi pure pareggiare e lì sì che ci saremmo divertiti a sentire tutte le lezioncine di chi, dopo, sa sempre come comportarsi prima. Ma per fortuna Donnarumma ha le scapole abbastanza larghe e quel pallone di Manaj è stato tenuto lontano dai pali. E se il capolavoro tra un paio di settimane si dovesse conclamare, quella sporgenza muscolare del portierone azzurro diventerebbe il simbolo più plastico dell’imponderabilità di uno sport dove non sempre conta il merito. Perché se contasse, ma davvero, il capolavoro che sta costruendo Luciano l’alchimista meriterebbe già un posto al Louvre. A prescindere da chi giocherà contro la Spagna e, soprattutto, di come finirà.
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