Interviste

Ciccio Graziani: «Ranieri è un allenatore top. Dovbyk? Poco scorbutico»

Parla l'ex calciatore della Roma: «Claudio sta facendo qualcosa di straordinario. Peccato per la sconfitta di Bilbao, ma Hummels non meritava il rosso»

(GETTY IMAGES)

PUBBLICATO DA Iacopo Savelli
16 Marzo 2025 - 06:30

«Quando mi alzo la mattina e vedo la luce sono felice perché il Signore mi regala un’altra giornata di vita. Poi ho tante cose da fare: attività mie, una trasmissione la domenica a Mediaset, la collaborazione con diverse radio e mi diverto a fare il nonno con due nipotini meravigliosi».

Intercetto Ciccio Graziani, previo appuntamento, in una delle sue giornate scandite da viaggi, incontri, impegni professionali e familiari. Il calcio gli ha dato tanto e tanto lui ha restituito, ad ognuna delle squadre con cui ha giocato e naturalmente alla Nazionale con cui è diventato campione del mondo. Ma per la nostalgia non c’è spazio. «Il campo non mi manca, come diceva mia mamma ogni frutto ha la sua stagione e in tutte le cose della vita c’è un principio e una fine. Certo qualche volta vedo Roma-Lazio, Roma-Juventus o Torino-Juventus e penso: “Che bello se potessi giocare io questa partita”. Però anche adesso che sono entrato nella soglia dei 73 anni, con le dovute cautele, gioco tre volte a settimana a calcetto con i miei amici. Sono contento perché c’è la salute, il resto si aggiusta sempre».

Facciamo un piccolo viaggio nel tempo, tu e Paolino Pulici avete avuto tanti imitatori ma siete stati gli unici veri gemelli del gol. Cosa c’era fra voi che rendeva questa coppia così fenomenale? 

«Tanta collaborazione e zero invidia, eravamo complementari: lui era importante per me, io lo ero per lui. In campo non parlavamo quasi mai, ma su un cross di Claudio Sala o di Zaccarelli bastava guardarci un attimo negli occhi e se il primo faceva un movimento, l’altro faceva il contrario. Faccio un esempio: se Pulici andava sul primo palo e si prendeva quello spazio, io mi prendevo l’altra metà della porta verso il secondo, per gli avversari marcarci diventava un enorme problema.

Sbaglio se dico che sei stato tra i primi esempi di centravanti moderno?

«No no, è così. Devo dire che mi sono ispirato tanto a Giorgio Chinaglia che ho conosciuto in Nazionale e con cui ho avuto un rapporto bellissimo. Lui mi ha insegnato tante cose perché era un attaccante di movimento e potenza. Poi Gigi Radice ci faceva vedere le cassette dell’Ajax: era malato del calcio totale olandese e in Italia col Torino siamo stati i primi a imitarlo con un po’ di pressing, un po’ di fuorigioco, ci stavamo modernizzando. Gigi mi diceva sempre che sarei stato perfetto per l’Ajax ma quei tempi, in Olanda, anche nel Psv e nel Feyenoord giocavano calciatori fortissimi».

Beh, sei stato perfetto per il Torino e per la Nazionale, no? 

«Sì, di Pulici ti ho già detto, poi in azzurro ho giocato con Bettega, con Paolo Rossi, grandissimi attaccanti».

Nella finale del 1982 ti sei fatto male subito, ti è rimasta un po’ di traverso o la gioia è stata la stessa? 

«Quando giochi una partita così unica nella tua carriera e dopo 8-9 minuti devi lasciare il campo, ti dispiace. Ma se penso che Giancarlo Antognoni non ha giocato neanche quelli, come faccio ad avere rimpianti: gli infortuni capitano. Tra l’altro al mio posto entrò Spillo Altobelli che meritava una fetta di gloria e con quel gol è entrato di prepotenza nella storia del calcio. Ero e sono contento per lui».

Sei il decimo marcatore italiano di tutti i tempi, hai fatto una carriera incredibile eppure sei rimasto una persona semplice.

«Io sono nato semplice, sono una persona come tante altre. Mi sono goduto la notorietà e ancora oggi tanta gente che mi incontra per strada mi saluta, chiede un selfie, un autografo. Ma l’umiltà è stata la mia grande forza, il restare sempre con i piedi per terra».

E sei sposato con Susanna da più di 50 anni, una cosa che nel tuo mondo ha dell’incredibile.

«Guarda, quando incontro tanti miei ex compagni di squadra che mi dicono: “Ma ancora insieme state?”, gli rispondo che siamo noi la normalità, non loro. Vedo gente che ha figli a destra e a sinistra: una volta si bisticciava, si stava un paio di giorni senza parlarsi, poi ci si abbracciava e si ripartiva. Oggi dopo mezz’ora di litigata uno fa le valigie a destra e l’altro le fa a sinistra. Per sbaraccare una famiglia dovrebbe succedere una cosa veramente grave e irreparabile».

Come avete festeggiato le nozze d’oro? 

«Stavo lì che pensavo dove andare qualche giorno io e lei, quando mi guarda e mi fa: “Andiamo tutti insieme, con figli e i nipoti, a Disneyland a Parigi.” Quando l’ho detto ai nipotini, un maschietto di 9 anni e una femminuccia di 14, non sai che festa dentro casa. Siamo andati ed è stato bellissimo. Quella settimana sono tornato bambino anche io».

Sei orgoglioso della carriera di tuo figlio Gabriele? 

«Assolutamente, anche se poteva fare di più: gli è mancata un po’ di cattiveria. Però ha fatto tutto da solo, dal settore giovanile dell’Arezzo al Mantova dove si è consacrato come miglior marcatore nella storia del club. Poteva andare al Genoa, ma ha preferito essere titolare in B che riserva in A. Poi lo voleva Gaucci al Perugia a parametro zero. Era tutto fatto, poi andò a cena col presidente del Mantova Lori insieme a Godeas e Hubner e si fece convincere a rinnovare. Non sai Gaucci come si arrabbiò, chissà come sarebbe andata. Ma quando il Mantova ha vinto ad Arezzo, dove viviamo, con un suo gol, mi portò la sua maglietta e mi disse: “Papo, io non avrò mai giocato in Serie A, ma tu non hai mai giocato col cognome Graziani dietro la schiena».

La poca cattiveria è il difetto di Dovbyk? 

«Come tipologia di centravanti non è che mi faccia impazzire perché è prevedibile, usa prevalentemente il sinistro, non sgomita, non spinge, è poco scorbutico calcisticamente parlando. Dicevo lo stesso di Dzeko e nonostante tra i due ci sia una differenza enorme, se avesse avuto la cattiveria mia e di Pruzzo sottoporta, avrebbe segnato il doppio dei gol».

Ma si può lavorare su questo oppure il carattere è quello che è?

«Nella vita si può migliorare in tutto, ma certo non si cambia il carattere; poi lavorare con i calciatori di oggi è difficile perché ti danno meno retta. Quando hanno un contratto quadriennale a tre milioni e mezzo a stagione, che segnino un gol o trenta non cambia nulla. Non ne ho visto nessuno fermarsi a fine allenamento a fare lavoro specifico,  con un’eccezione: Vlahovic alla Fiorentina. Lui restava in campo, calciava in porta, si faceva fare i cross, stoppava, tirava. Le stagioni alla Juve non gli stanno dando ragione, ma Vlahovic è una belva e non si accontenta mai. Se fa due gol questa domenica, la prossima ne vuole fare tre». 

Hai perso tre scudetti incredibili, mettiamoli in fila. 

«A Torino siamo arrivati secondi facendo 50 punti su 60, ma Pecci mi ha sempre detto che se ne avessimo fatti 51, la Juve ne avrebbe fatti 52. Purtroppo è andata così, ma avere lottato sempre a certi livelli e per certi obiettivi è stato molto stimolante per la mia carriera. A Firenze fu decisivo il gol che mi annullò a Cagliari il povero arbitro Mattei, che però anni dopo mi confessò che rivedendo le immagini non avrebbe mai fischiato fallo a Bertoni. Insomma, col VAR sarebbe andata diversamente, ma la sua onestà mi ha pacificato perché sai, a quei tempi, pensavi sempre che ci fosse qualcosa sotto. Invece gli ho creduto, gli ho stretto la mano e gli ho detto: “Sbagliamo noi, potete sbagliare pure voi”». 

E poi c’è la Roma, ma cominciamo da come sei arrivato in giallorosso.

«Allora, alla Fiorentina era arrivato Allodi che mi chiamò e mi disse: “Sai, quest’anno le cose non sono andate tanto bene, vorremmo ripensare il tuo contratto con una clausola economica legata ad un minimo di gol segnati”. Non mi stava bene e discutemmo, poi andai in Nazionale e Bruno Conti mi confidò che il presidente Viola mi voleva parlare e me lo passò al telefono. “Ciao Ciccio, c’è Liedholm che mi martella ogni giorno: ti vuole a tutti i costi visto che faremo la Coppa dei Campioni. Qui ti vogliamo bene, ti stimiamo, sei della provincia di Roma, devi venire da noi”.  Gli risposi che bisognava parlarne con la Fiorentina e lui mi disse che non mi avrebbe mai chiamato se non lo avesse già fatto. Provai a rimandare, volevo confrontarmi con i Pontello, ma Viola mi avvisò che l’indomani sarebbe arrivato Previdi con il contratto. E così andò, uscii dal ritiro di nascosto e nell’auto di Previdi mi accordai con la Roma per tre anni. Tornato dalla Nazionale, mi chiamò il conte Flavio Pontello e mi disse che con il fratello ci avevano ripensato. Quando gli risposi che ormai era tardi ci rimase male, ma mi garantì che l’amicizia sarebbe rimasta immutata e così è stato. Quando smisi nel 1987 mi invitò a pranzo e mi riaprì le porte della Fiorentina, qualunque cosa volessi fare. Scelsi di allenare nel settore giovanile e mi sono ritrovato con la prima squadra contro la Roma al Flaminio. È stata un’emozione meravigliosa riabbracciare Radice, che è stato in assoluto l’allenatore più importante della mia carriera. Mi ricordo che Giannini mi disse: “Non avrei mai pensato che avresti allenato in Serie A”. Pareggiammo 0-0 e Baggio si fece parare un rigore da Tancredi».

Roma ti è rimasta nel cuore.

«Assolutamente, come ti ho detto Liedholm mi aveva voluto a tutti i costi ma ogni tanto non mi faceva giocare. Con lui non c’era dialogo, il sabato quando ci allenavamo al Tre Fontane veniva Tessari e mi diceva: “Ciccio, questa settimana non è che ti ho visto tanto bene, nemmeno nell’amichevole del giovedì”. Ok Luciano, ho capito: panchina o tribuna? Poi una volta dovevamo giocare ad Avellino, tre giorni dopo c’era il ritorno col Dundee che in Scozia ci aveva battuto 2-0 e per la prima volta venne a parlarmi il Barone. “Senti Ciccio, domani ti vorrei far riposare, loro sono una squadra fisica e ti voglio preservare perché mercoledì ci servi come il pane”. Ho giocato entrambe le partite e mi è rimasto l’orgoglio di quel colloquio che credo Liedholm non avesse riservato a nessun altro. Quando andò via mi dispiacque perché era una persona corretta, onesta e con lui tecnicamente ho imparato tante cose».

Più doloroso perdere con il Liverpool o con il Lecce?

«Liverpool, senza dubbio: era un’occasione d’oro perché sapevamo tutti che sarebbe stato quasi impossibile arrivare di nuovo in finale. Giocare in casa forse si è rivelato un boomerang, è rimasto il rammarico di non avere aggiunto alle nostre carriere un trofeo meraviglioso e regalato alla società e ai tifosi un pezzo di storia. Io e Bruno Conti abbiamo sentito il peso di quella sconfitta più di altri avendo sbagliato il rigore, ma non potevamo non prenderci quella responsabilità».

Stai pensando a Falcao? 

«Guarda, Paulo disse che era fuori da tre mesi ed era stremato: noi abbiamo provato a convincerlo, Pruzzo e Cerezo non c’erano, non poteva certo calciare Strukelj. “Paulo, sei un grande campione:  ci sono dei momenti in cui non  ci si può tirare indietro; anche se la lingua ti striscia per terra lo devi battere, non ti ricapita un’altra opportunità come questa, sei un calciatore meraviglioso, un fuoriclasse, non ti chiamare fuori”. È andata come sappiamo, ma anche ai Mondiali del 2006 in tanti non se la sono sentita: l’ultimo rigore lo ha tirato Grosso. Nessuno sa cosa scatta nella mente di una persona, se non se la sente mica puoi obbligarlo».

Con Eriksson sei diventato il Pelé bianco. 

«Eh, farina del sacco di quel burlone di Pato. Però è stato un soprannome meraviglioso e me lo sono goduto perché, quando è diventato di uso comune tra i tifosi, so che si portava dietro tanto affetto».

Ciccio, ti aspettavi che Ranieri facesse quello che sta facendo alla Roma? 

«No. Dopo due chirurghi pensavo che il terzo avrebbe fatto più o meno la stessa fine, anche se in realtà a De Rossi non hanno nemmeno dato il tempo di valutare il paziente: lo ha curato tre giorni e gliel’hanno portato via. Pensavo che Juric potesse fare molto di più, ha un carattere spigoloso e secondo me sa allenare, ma ha fallito su tutti i fronti, comunicazione compresa. Poi è arrivato Claudio che dall’alto della sua esperienza ha rimesso le cose a posto, ha riportato autostima, serenità, tranquillità. Se in Inghilterra lo hanno onorato con il titolo di Sir per l’impresa con il Leicester, a Roma dovrebbero nominarlo imperatore: Claudio Ranieri Victorious, perché quello che sta facendo è qualcosa di straordinario».

Con Ranieri anche dopo Bilbao, Ciccio?

«Certo che sì. In dieci contro undici per 80 minuti non è stata una partita. Avrei voluto vedere la Roma giocarsela ad armi pari, sarebbe stata un’altra storia. E devo dire che non sono d’accordo con Claudio sull’espulsione di Hummels: ho molti dubbi che l’arbitro abbia preso la decisione corretta; anche ammesso che fosse fallo, la porta era a 45 metri. Comunque, è andata così: guardiamo avanti, perché la stagione non è ancora finita».

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