Interviste

Boniek: «Aiuterei la Roma»

Da “bello di notte” a Viola, passando per Eriksson, il polacco si racconta a "Il Romanista": «La stagione giallorossa? Ancora lunga e ci sono le coppe»

PUBBLICATO DA Iacopo Savelli
17 Gennaio 2025 - 09:18

Novantadue partite e 23 gol in giallorosso, un rapporto con i tifosi tutto da inventare, nell’estate dell’85, per uno che arrivava dalla Juve a prendere il posto di Falcao. Invece tra Zibi Boniek e la Roma sono stati tre anni di grande amore sigillati da quel bacio sulla maglia dopo il gol del 2-0 al Napoli nel gennaio dell’86, il settimo ed ultimo per lui in quella meravigliosa e maledetta rimonta che ci ha lasciato una ferita che sanguina ancora. 69 anni a marzo portati benissimo, vicepresidente dell’Uefa, Boniek ci racconta di sé, dei suoi compagni di squadra, della Roma che era e che sarà. Con lui facciamo un piccolo viaggio nel tempo tra passato, presente e futuro cominciando dalla città dove vive da quarant’anni.

Zibì, com’è oggi Roma?

«È cambiato il mondo, il modo di comunicare, di vivere, di educarsi. I social hanno accorciato le distanze tra le persone, poi è cambiata la città ma come Roma negli Anni 80 era diversa da quella degli Anni 50, così oggi è un’altra cosa rispetto alla prima che ho conosciuto, ma è normale evoluzione». 

Quindi non sei tra quelli che dicono “come si stava meglio prima...”   

«Sicuramente si stava meglio, poi bisogna accettare quello che viene. Peccato che non si riesca a risolvere il problema dei rifiuti, che ci siano le buche, che ci si debba organizzare la mattina per evitare di restare bloccati nel traffico. Detto questo, mi ricordo quando c’era solo il telefono di casa e chi aveva il fax era all’avanguardia. Noi calciatori arrivavamo allo stadio alle due e mezza, alle tre giocavamo, poi si andava di corsa a casa a vedere le azioni migliori delle partite su novantesimo minuto. Oggi stiamo andando a 300 all’ora, vedremo in quale curva usciremo fuori strada».

Ti piace il calcio delle grandi aziende e delle proprietà straniere?                                                         

«Onestamente mi piaceva più quello di prima, nello spogliatoio si parlava una lingua sola, gli stranieri dovevano imparare al più presto l’italiano altrimenti non potevano comunicare. Oggi ci sono 25 giocatori per squadra, quasi tutti si sentono titolari, non parlano tra loro perché non hanno una lingua comune. Ai miei tempi ogni tifoso poteva citare a memoria gli undici della propria squadra, ora cambiano sempre. Il turn-over è nato con Berlusconi che ha riempito il Milan di giocatori. Sento dire che si gioca troppo, ma le stesse persone non spiegano che succede perché i calciatori vogliono sempre più soldi. La realtà è che una partita, tutto compreso, dura due ore: sai quanti chilometri si fanno di media in una partita? Da 10 a 13. Quindi atleti che guadagnano milioni facendo il mestiere della loro vita, sono stanchi perché in due ore devono percorrere sprintando, andando piano, camminando, perché non si va sempre a mille all’ora, 12 chilometri che in due ore fa anche mia nonna. Io, che ho quasi settant’anni, li faccio in un’ora. La stanchezza è mentale: si gioca sabato, venerdì, lunedì, giovedì, mercoledì, si viaggia troppo e non si ha una vita organizzata come ai nostri tempi. Anche se magari a un ritmo diverso, noi giocavamo tutte le partite, se erano 50 ne giocavamo 50. Oggi tutte le partite non le fa quasi nessuno, poi ci sono i cinque cambi che, tranne Ranieri in questo periodo, utilizzano tutti. Ripeto, è una questione mentale, non fisica».

Perché hai smesso così presto Zibì? 

«Non ho smesso presto, a 32-33 anni allora più o meno lasciavano tutti. Intanto perché non c’era la possibilità di andare a giocare altrove a prendere tanti soldi, nessuno ti dava cifre che potessero bastare per tutta la vita. Poi avevo giocato tutte le partite box to box da quando avevo 18 anni: Serie A, Nazionale, Coppe. Ero stanco e anche un po’ usurato». 

La Roma di Eriksson era forte. Forte come la Juve.

«Purtroppo all’inizio Sven ci ha messo troppo tempo a comprendere come metterci in campo e che in attacco dovevano giocare Pruzzo e Graziani. Una volta che ci siamo capiti siamo diventati un rullo compressore, un treno che schiacciava tutti. Vincevamo quasi sempre facendo delle partite straordinarie. Onestamente ti dico che alla Juventus stavo benissimo, ho tanti amici ancora adesso con cui abbiamo vinto tutto, però anche a loro ho sempre detto che il miglior calcio che ho giocato in Italia è stato quello del primo anno con Eriksson». 

C’è qualcosa che non hai mai raccontato di Roma-Lecce o è stato detto tutto?

«Guarda, non c’è una persona che non abbia rimpianti: il mio è Roma-Lecce, ce l’ho dentro lo stomaco. Se avessimo vinto sono certo che lo scudetto sarebbe stato assegnato allo spareggio e sarebbe stata una cosa bellissima. E forse Ancelotti e Cerezo sarebbero rimasti per giocare la Coppa dei Campioni. So che sono girate certe storie su quella partita, ma ti assicuro che volevamo vincere a tutti i costi. Purtroppo ci siamo un po’ rilassati ma se si fosse potuta rigiocare altre cento volte, avremmo sempre vinto. Poi c’è un’altra cosa: da quando sono arrivato in Italia ho sentito parlare del gol di Turone, ho visto le immagini ed era validissimo. Ma nessuno racconta mai che con il Lecce avevamo segnato il secondo gol regolarissimo che fu annullato per un fuorigioco che non c’era di un metro. Da 2-0 quando cacchio avremmo perso? Di quel gol non se ne parla mai e a me fa ancora male. Poi potevamo fargliene dieci, ma una volta il palo, un’altra la traversa... sono quelle storie del calcio che succedono ma fermiamoci qui, non mi fare innervosire di nuovo...».

Col Var sarebbe stata un’altra storia.

«La Var elimina tutti i gol che non sono regolari, ma non mi piace come viene utilizzata in certe occasioni. C’è un arbitro che da due metri vede un’azione, la sente, la annusa, ne capisce la dinamica. Poi lo chiama la Var, gli fa vedere un fermo immagine e lui cambia decisione. Non sarà che lui da due metri in campo ha visto meglio di quello che sta in sala computer a 300 chilometri di distanza? Per me viene utilizzata bene solo in Champions League, quando dà una mano all’arbitro per le cose essenziali. Poi bisogna fare chiarezza sui falli di mano, ne abbiamo parlato spesso all’Uefa. Quello di Roma-Siviglia che era nettissimo non viene dato, idem quello agli Europei in Germania-Spagna, poi si danno due rigori per tocchi del tutto casuali in Roma-Bologna. Così non ci si capisce nulla».

Dopo Roma-Siviglia torni con l’aereo dei Friedkin e cominciano a girare tante voci.

«Se io sono vicepresidente dell’Uefa e dopo la partita il signor Friedkin mi chiede “Dove vai?”, io rispondo “A Roma” e lui mi invita sul suo aereo privato, io ci vado. Ma non mi sono mai offerto per qualche lavoro nella Roma, sto bene e sono felice di quello che faccio. Però non posso negare che vestire di nuovo la divisa della Roma mi farebbe piacere perché potrei aiutarli su diverse cose».

Senti, se Ranieri fosse arrivato prima la Roma sarebbe in lotta per un posto in Champions?

«Penso che cacciare De Rossi sia stato un gravissimo errore. Quando prendi un allenatore giovane e gli fai un contratto di tre anni, lo devi mettere nelle condizioni ideali per lavorare. De Rossi è intelligente, bravo, capisce di calcio, può commettere qualche errore perché è inesperto ma io dico che a volte l’esperienza è il primo freno del progresso. I Friedkin hanno investito nella Roma quasi un miliardo, la gente dovrebbe rispettarli e volergli bene, se non è così vuol dire che qualche errore lo hanno fatto. Forse si poteva prendere Ranieri come dirigente già con De Rossi, ma una cosa è sicura: non esiste club bene organizzato dove l’allenatore sia lasciato solo. Se a De Rossi avessero affiancato un po’ di gente competente, lui si sarebbe concentrato solo sul lavoro in campo e oggi forse sarebbe ancora al suo posto. Ranieri è straordinario, ha fatto tutto quello che andava fatto in questa situazione. Se penso che la Roma aveva Hummels e non lo mettevano in campo giocando a tre dietro...Hummels è ideale per giocare con tre centrali, qualcuno dice che sia un po’ lento ma lo è da sempre. Però pensa veloce, ha carisma, sa andare in anticipo, è bravissimo di testa, buonissimo nell’uno contro uno. Quando vedevo Hummels in panchina per far giocare Angelino, Hermoso o qualcun altro, pensavo di essere al fantacalcio. Claudio ha messo tutto a posto anche perché, parliamoci onestamente, la Roma ha buoni giocatori. Purtroppo ha speso soldi un po’ inutili, se io fossi stato in società avrei detto: abbiamo Bove, Pisilli e altri, investiamo su di loro. 25 milioni di euro per un giocatore li avrei spesi diversamente».

Il derby come lo hai vissuto?                                                                                                                                    

«Nel calcio intelligenza e furbizia fanno la differenza, non è uno sport matematico come il basket o la pallamano, la casualità è un elemento molto importante. Ranieri è stato bravissimo, con due contropiede ha fatto due gol alla Lazio nel primo tempo, poi nel secondo ha abbassato la Roma chiudendo gli spazi a Zaccagni e a Nuno Tavares che hanno crossato sempre da trenta metri, mai dalla linea di fondo. Leggi i numeri della partita e pensi come sia possibile che sia finita così, la sintesi perfetta è: l’intelligenza ha sconfitto la statistica».

Rimpiangi di non averne mai giocato uno?

«Beh, non è colpa mia se la Lazio in quegli anni aveva i suoi problemi ed era in serie B. Con la Juventus l’ho battuta spesso e siccome la Roma era altrettanto forte, penso sarebbe stata la stessa cosa. Certo le vittorie nei derby ti danno anche un po’ di eternità, mi sarebbe piaciuto averne avuto l’occasione».

Italia-Polonia, semifinale del Mondiale ‘82, se tu avessi giocato sarebbe andata diversamente? 

«Brutto tasto, ti faccio io una domanda: se non ci fosse stato Paolo Rossi le cose sarebbero cambiate? Cambiavano eccome, ma lui ha giocato e io no. Prima di quella partita avevo segnato cinque reti, ma una me l’avevano tolta contro il Perù, un pallonetto da venti metri annullato per un fuorigioco scandaloso di Smolarek che era a cinquanta metri da me. Ero in una forma splendida, ma cosa sarebbe successo se fossi stato in campo non può saperlo nessuno. Però ho perso la semifinale per un’ammonizione presa contro la Russia senza avere fatto nulla, l’arbitro mi ha cercato tutta la partita per darmi il cartellino giallo, lo fece premeditatamente. Oggi gli arbitri commettono errori ma sono bravi e onesti, su quelli dei nostri tempi avrei tante cose da dire. Alla fine siamo arrivati terzi dopo aver battuto la Francia, non è andata male».

Però quella formidabile Polonia degli anni 70-80 non si è mai più ripetuta.

«Tra il ’74 e l’86 eravamo fortissimi: terzi in Germania, quinti in Argentina, di nuovo terzi in Spagna, fuori ai quarti contro il Brasile in Messico, poi è finito il ciclo dei Deyna, Lato, Gadocha, Zmuda, Gorgon, Szarmach. Giocavamo tutti nel nostro campionato, eravamo molto uniti, volevamo spaccare il mondo, farci conoscere, poi sono state aperte le frontiere ed è cambiato il paese. Uscire dal comunismo è stato giusto, ma con il sistema politico è stato stravolto anche il modo di allenarsi, di gestire le società, di pensarsi insieme».

Puoi spiegare ai ragazzi di oggi che giocatore era Deyna.

«Bisognerebbe parlare anche di Lato che ha disputato quattro mondiali ed è stato capocannoniere in Germania nel ’74, un grandissimo giocatore. Deyna aveva un’intelligenza in mezzo al campo stratosferica, la palla sempre incollata ai piedi ed era completamente taciturno, ho giocato con lui al mondiale in Argentina e fuori dal prato verde non l’ho mai sentito parlare. Vivesse e giocasse oggi sarebbe uno dei migliori al mondo, purtroppo è morto giovanissimo negli Stati Uniti. Ma il mio idolo è stato Wlodek Lubansky, quando io avevo 12 anni lui già giocava in nazionale. Poi in Argentina, contro il Perù, il nostro CT lo fece entrare al mio posto all’88esimo e ti giuro: mi vennero le lacrime agli occhi. Ebbe un gravissimo infortunio al ginocchio che gli compromise la carriera, ma era fortissimo. Nel 1980 ero in campo nel giorno del suo addio alla Nazionale, una partita vera contro la Cecoslovacchia, non una scampagnata. Ho giocato solo per fargli fare gol, al quarantesimo mi hanno falciato in area e quando l’arbitro ha fischiato rigore, non sai com’ero felice. Ho preso la palla, gliel’ho consegnata e quando lui ha segnato si è chiuso il cerchio con la mia gioventù.

Dopo i tre anni alla Juve hai mantenuto la promessa fatta a Dino Viola.

«Era tutto fatto, poi ci furono problemi tra la Roma e la mia Federazione per il costo del cartellino e si inserì la Juventus. Era venuto Helenio Herrera per portarmi a Barcellona con un prete che faceva da traduttore, il Tottenham mi mise davanti un assegno in bianco, ma io pensavo solo all’Italia. Dissi a Viola che se mi avesse voluto ancora alla fine del contratto con la Juve, sarei venuto e così è stato. E il primo anno a Roma è stato fantastico, che calcio e che squadra: Tancredi in porta, Righetti, Nela, Oddi, Gerolin e Tempestilli in difesa, a centrocampo io, Conti, Ancelotti, Cerezo e tre giovani leoni che si chiamavano Di Carlo, Giannini e Desideri, in attacco Pruzzo e Graziani più Tovalieri e Impallomeni. Sicuramente dimentico qualcuno e me ne scuso, ma che spettacolo abbiamo regalato. Il secondo anno di Eriksson non si racconta mai, ma quando trovammo l’equilibrio con me nel ruolo di libero, arrivammo al secondo posto dietro al Napoli. Mi piaceva giocare dietro, lo avevo fatto da ragazzo, hai tutta la squadra davanti, se sei intelligente, veloce, concentrato, è una posizione più facile. Naturalmente bisogna avere timing e un buon colpo di testa. Funzionava alla perfezione, poi tutti hanno cominciato a dire che dietro ero sprecato, che dovevo tornare davanti, abbiamo cambiato assetto difensivo e siamo crollati». 

Sperando che nessuno si offenda, mi dici i tuoi tre compagni della Roma più forti?

«Tre sono troppo pochi, ne devo nominare cinque, in ordine sparso: 1) Sebino Nela che secondo me poteva fare tre volte di più di quello che ha fatto; 2) Bruno Conti e non serve nessuna spiegazione; 3) Toninho Cerezo che per me era un grande giocatore; 4) Roberto Pruzzo perché non ho giocato con nessun altro che avesse il suo timing in area di rigore 5) Giuseppe Giannini». 

Anche lui ha passato qualche momento difficile come altri capitani della Roma.

«Il capitano è l’uomo più importante, un simbolo, è lui che deve spingere la barca e dare il buon esempio per tutti. Capitano non è solo uno che porta la fascia al braccio, è quello che la deve onorare sul campo con le prestazioni. Lorenzo Pellegrini ha tutto per giocare alla grande e dare molto di più, siccome i tifosi della Roma si aspettano tanto da lui come da ogni capitano, è normale che abbiano anche il diritto di fischiarlo».

Chi vedresti bene come prossimo allenatore?

«Il problema è che vogliamo sempre avere cose diverse da quelle che abbiamo, invece bisogna programmare senza dimenticare che anche in questa stagione si può ancora fare bene: punterei tutto sull’Europa League che è la nostra porta aperta verso la Champions. Ancora mi domando chi diavolo abbia suggerito ai Friedkin di prendere Juric, si dice Beppe Riso e non può mai essere un manager di giocatori a scegliere chi li debba allenare. A me piace Ranieri, non sono tra quelli che pensano che per essere bravi si debbano avere i capelli ben tagliati con un po’ di gel e un look moderno. Qualche capello bianco porta con sé saggezza ed esperienza, ogni tanto ce n’è proprio bisogno».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

CONSIGLIATI