Parla Amedeo Carboni: «Ranieri sa costruire un gruppo»
Le parole del doppio ex di Roma-Sampdoria: «Ho avuto Claudio a Valencia: ci fece diventare squadra. Ricordo Mazzone con affetto. Totti era già il nostro cocco»
Più che un’intervista, una lunga chiacchierata con un uomo di una simpatia spontanea e contagiosa. Sono a mio agio come fossimo vecchi amici, le risposte alle domande sfociano spesso in aneddoti che raccontano un calcio che non c’è più: quello dei rapporti umani, delle battute, della capacità di sdrammatizzare e nello stesso tempo avere consapevolezza dell’importanza di indossare una maglia adorata dai tifosi.
Cose che Amedeo Carboni, 230 partite con la Roma, le ultime 24 da capitano, porta con sé nel suo attuale ruolo di dirigente di primo livello di MolcaWorld, azienda di Valencia specializzata nella ristrutturazione e rigenerazione di stadi di calcio (ma non solo) all’insegna di innovazione tecnologia, sostenibilità, costi ragionevoli. Progetti unici adattati ogni volta alla filosofia, ai tifosi e alla storia di ciascun club.
Sei andato al Valencia a 32 anni e ne sei diventato capitano e simbolo nelle stagioni dei trionfi nazionali e internazionali. Una carriera che sembrava non finire mai, l’ultima maglia numero 15 a 41 anni compiuti, dopo 746 partite ufficiali e due gravi infortuni. Qual è stato il segreto della tua longevità?
«Molti dicono che oggi si gioca troppo, è vero ma bisogna considerare che strutture, metodiche di allenamento e recupero, progressi di cure mediche e chirurgiche hanno fatto passi da gigante. Nel 1992 in un derby con la Lazio mi sono rotto i legamenti del ginocchio, i primi due giorni pensavo che non avrei più giocato, all’epoca si stava fermi almeno otto mesi e non c’era certezza di guarire. Si piantò lo scarpino nel terreno, da quel giorno non ho mai più usato i tacchetti di alluminio. Ma infortuni a parte, per me lo stress mentale è peggiore di quello fisico, non per tutti ma per quelli che giocano anche le coppe e in nazionale: alberghi, aerei, giorni lontano da casa lasciano il segno più della stanchezza».
Hai giocato con tanti allenatori, c’è qualcuno che ricordi in modo particolare?
«A livello umano Mazzone era speciale, lo ricordo con affetto. Il secondo anno con lui eravamo forti, gli davano del difensivista ma giocavamo con Giannini, Cappioli, Balbo, Fonseca e Moriero, cinque attaccanti. Festa e Aldair erano una bella coppia difensiva, avremmo potuto fare meglio, ma erano i tempi di Moggi. Poi ci fu la partita con lo Slavia Praga, una rimonta incredibile fino al gol di Vavra che ci ha ammazzato il cuore. Loro erano l’ossatura della Repubblica Ceca che sarebbe arrivata in finale con la Germania a Euro ’96, ma meritavamo di passare. Da bambino ho avuto la fortuna di trovare allenatori che sono stati come dei secondi padri, si pensava a giocare bene e a divertirsi. I ragazzini dovrebbero essere allenati da persone di una certa età perché i giovani vogliono fare carriera e pensano troppo ai risultati. Nella Primavera della Fiorentina ho conosciuto Arrigo Sacchi che anni dopo mi avrebbe chiamato in Nazionale. Non avendo mai giocato a calcio era attento a cose che altri non avrebbero mai guardato, si faceva tattica la mattina perché sosteneva avessimo la mente più fresca e ricettiva, poi il pomeriggio durante la parte atletica faceva mettere la musica dagli altoparlanti per aiutarci a sentire meno la fatica».
Con Ottavio Bianchi rivinci la Coppa Italia ma perdete la Coppa Uefa in finale con l’Inter.
«Stagione strana, condizionata da tante cose. La squalifica di Peruzzi e Carnevale, la morte del presidente Viola. In Coppa Uefa ho giocato poco perché nel primo turno in trasferta a Lisbona col Benfica sono entrato, mi sono fatto espellere e mi hanno dato tre giornate di squalifica. Poi arrivò Ciarrapico che non sapeva nulla di calcio e non conosceva nessuno, ogni volta che lo incontravo mi presentavo: “Buongiorno Presidente, sono Amedeo Carboni”, ma era un personaggio top. Il secondo anno con Ottavio Bianchi al sorteggio di Coppa delle Coppe, al primo turno ci tocca il Cska Mosca che non perdeva in casa da due anni e mezzo, una sfiga assurda. A quel tempo c’erano i premi partita, siccome temevamo di uscire subito volevamo 15 milioni, ma Ciccio Mascetti ci disse che Ciarrapico sarebbe arrivato al massimo a 10. Partimmo per Mosca senza accordo ed eravamo arrabbiatissimi, Mascetti ci disse che ce la saremmo vista col presidente all’Hotel Metropòle. La sera prima della partita, quasi a ora di cena, il dirigente accompagnatore Fernando Fabbri viene a dirci che Ciarrapico ci vuole parlare. Tra di noi serpeggia la paura, allora davanti al presidente ci si alzava in piedi. Ciarrapico prende la parola e dice: “Ragazzi, a me gli accordi tra commercianti non sono mai piaciuti, facciamo 32 e non ne parliamo più. Tutti a cena e Forza Roma”. Appena è uscito si è scatenata la bolgia, tutti a ridere, Mascetti tutto rosso… Cioè noi volevamo 15 milioni e ne abbiamo avuti 32 perché poi abbiamo vinto 2-1. Peccato che a Montecarlo ci facemmo eliminare dal gol di testa di Rui Barros, era talmente piccolo che non lo ha guardato nessuno e abbiamo fatto la frittata. Ma di Ciarrapico te ne racconto un’altra: a inizio stagione dobbiamo andare in pullman ad Avellino per un’amichevole. “Come in pullman? - dice Ciarrapico - Andiamo con i miei elicotteri (lui aveva la Air Capitol): su uno salgono allenatori e dirigenti, sugli altri due i giocatori. Facciamo Apocalipse Now”. Non sai le risate, ovviamente non se n’è fatto nulla, ma lui ha anche provato a pagare metà ingaggio a Giannini che ogni giorno veniva da Frattocchie a Trigoria, con un elicottero che valeva un miliardo e mezzo».
Il tuo ultimo anno alla Roma arriva Carlos Bianchi.
«Il Mago G, per lui ho litigato con il presidente Sensi che, essendo io il capitano, mi chiedeva come andavano le cose. Gli ho detto la verità, che nello spogliatoio c’era malumore e lui si arrabbiò. Non eravamo nemmeno partiti malissimo ma ci voleva far allenare alle otto di mattina, sedute durissime peraltro, tre ore massacranti. Ho provato a spiegargli che per allenarsi alle otto c’era chi si sarebbe dovuto alzare alle sei, che Roma è grande e la mattina il traffico è infernale, ma lui niente: “Mio padre faceva il giornalaio e si alzava alle tre e mezza” mi ha risposto. Poi si era portato Roberto Trotta, non voglio dire che fosse scarso ma certamente non era un fenomeno. Nella riunione tecnica Bianchi chiese: “Chi batte le punizioni? Chi batte i rigori”? Trotta alzava sempre la mano, voleva fare tutto lui, mi ricordo Cervone seduto accanto a me: “Eccaallà, se comincia male”. Mi faceva giocare ala sinistra nonostante fossi in nazionale da terzino e poi non voleva Totti, cosa che gli costò il rapporto con Sensi. Totti era forte, era il cocco della squadra ma Bianchi voleva Litmanen. Francesco ha fatto una carriera eccezionale, anche io ho giocato fino a quarant’anni ma lui aveva talento, io mi sono costruito. Però avevo una dote importante: ero molto competitivo, superarmi era dura. Ero velocissimo e se saltato tornavo subito sul mio avversario. Vivevo per la competizione e tatticamente ero bravo».
In Spagna hai vinto due volte la Liga, una Coppa del re, una Coppa Uefa e una Supercoppa Europea e hai conosciuto Claudio Ranieri.
«All’inizio ho fatto fatica, venivo dalla rottura del tendine d’Achille. Mi ero operato a Turku in Finlandia, dove è stato anche Spinazzola. In sala d’aspetto c’era un viavai di gente in camice poi vedo un piccoletto senza capelli che zoppicava e tra me e me penso: speriamo che non sia lui il chirurgo, invece era proprio lui, il professor Orava. Avevo la mentalità italiana che considera alcuni momenti sacrali, come stare in silenzio sul pullman che porta la squadra allo stadio. In Spagna c’era musica a tutto volume ovunque, salti, balli. Se giocavamo di sera, a pranzo c’era la paella, io andavo dal cuoco e mi facevo fare il riso in bianco. Poi dopo due mesi ho capito che il coglione ero io e sono diventato il più casinista di tutti. Ero in paradiso, vivevo in pieno centro, si andava a bere e in discoteca con i giornalisti. Valdano fu esonerato dopo una sconfitta in casa, vidi i fazzoletti bianchi sventolare nello stadio ma non sapevo cosa significassero, nello spogliatoio erano tutti tristi: “È la pañolada, ci hanno contestato”. Contestato? Questa sarebbe una contestazione? Voi non l’avete mai vista una contestazione, dissi loro. Arrivò Ranieri che fu bravissimo a costruire il gruppo: fuori i giocolieri e le mele marce come Romario e Ortega, dentro tanti giovani e siamo diventati una squadra. Giocavamo all’italiana, in contropiede, allora la tattica valeva più del giocar bene. Prendevamo pochi gol quindi come minimo finiva zero a zero, ma negli spazi con gente velocissima come Lopez e Angulo eravamo micidiali. Sette anni dopo (2004, ndr) Ranieri tornò perché il presidente Manolo Llorente dopo aver litigato con Benitez che andò al Liverpool, doveva calmare i tifosi con un allenatore amato dalla piazza. Stavolta però trovò una squadra che aveva vinto tutto e fece un po’ di confusione. Arrivarono Di Vaio, Moretti, Fiore, Corradi, li fece giocare subito da titolari e i giocatori spagnoli la presero male. Io ero nel mezzo e non sapevo come mediare, ma credo che Ranieri avrebbe dovuto inserirli con più calma. Non lo fece e a febbraio fu mandato via».
Da Ds sei stato a un passo dal portare Cristiano Ronaldo al Valencia.
«Sì, nel mio primo e unico anno da dirigente, poi è andato via il Presidente e ho preferito fare altro, anche perché non avevo più voglia di litigare con i due, tre procuratori che nel club facevano il bello e il cattivo tempo. Avevamo trovato i soldi per prendere Ronaldo, che voleva andare via dal Manchester United perché aveva litigato con Rooney che era stato espulso durante Portogallo-Inghilterra al Mondiale 2006. Servivano 60 milioni che mettemmo insieme grazie agli sponsor perché il Valencia da solo non li aveva. Con Mendes era tutto fatto, ma lo United si mise di traverso e l’affare saltò».
Un’ultima cosa, sei tra i calciatori italiani che hanno vinto di più ma ti sei fermato a 99 presenze nelle Coppe Europee, ti dispiace di non essere arrivato a 100?
«Novantanove? Ti giuro che non ne avevo idea…comunque no, non mi dispiace per niente anzi: a cento sarei stato uno dei tanti, 99 invece è una cosa particolare, meglio così».
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