Interviste

Montali: "Per fare sport, nessun posto è come Roma: qui si può vincere"

L'ex dirigente intervistato a Radio Romanista: "Venni accolto come "parafulmine" e ci lanciavano pomodori, ma con Ranieri siamo stati campioni d'Italia per 40 minuti"

(GETTY IMAGES)

PUBBLICATO DA La Redazione
14 Dicembre 2024 - 10:22

Protagonista dell'ultima puntata di "Unico", Giampaolo Montali è intervenuto a Radio Romanista. Queste le parole del dirigente sportivo, alla Roma dal 2009 al 2011: 

Lei arriva in un’estate particolare alla Roma. Si dice che quando andò alla Juventus Elkann la chiamò mentre raccoglieva ciliegie. In che circostanze arrivò la chiamata della Roma?

"Alla Juventus andò così, sì. In quel momento pensavo fosse un mio amico a chiamarmi, perché avendo un ego smisurato pensavo volessero fare questo scherzo, facendomi credere di essere l'uomo giusto per aiutare la società nelle difficoltà di quegli anni. Quando andai alla Roma in realtà io ero praticamente del Napoli, avevamo programmato la stagione prendendo Mazzarri e Bigon, poi alla fine del contratto mi fermai per una clausola sui diritti d’immagine. Mi presi una notte per pensarci e mi chiamò la Roma; parlai con Rosella Sensi, Ranieri e l'UniCredit, il giorno successivo andai da De Laurentiis e dissi che sarei andato alla Roma. DeLa non la prese bene ma capì perché sono molto legato alla città di Roma. Arrivai che la squadra era quart'ultima, la prima partita la perdemmo contro l'Udinese: dopo una telefonata con la Sensi e Bruno Conti decidemmo di informare la squadra che sarebbe andata in ritiro. Gli dissi che sarebbero andati in ritiro, ma aggiunsi che io non li avrei mandati. Julio Sergio mi chiese: “Direttore, lei in noi cosa farebbe?”. Io gli risposi: “Se c’è soltanto uno di voi che andando in giro in questi giorni a Roma può soffrire la pressione della gente, andrei tutti insieme in ritiro”, anche perché così potevano stare più tempo con Ranieri, che era appena arrivato. I giocatori decisero allora di andare in ritiro, e io dissi alla stampa che la decisione fu della squadra. Andammo in ritiro, ci lanciarono le bombe carta alle due di notte con tutti che erano spaventati, non fu un inizio facile. La prima partita in casa, ricordo che a Viale dei Gladiatori i tifosi fermarono il pullman per fare scendere un giocatore e un dirigente. Scesi io e basta, mi vennero incontro questi duecento tifosi con una ghirlanda da morto. Mi dissero che non c'entravo niente perché ero appena arrivato, ma mi dissero di portarla dai giocatori per dire loro che erano una squadra di morti e che se non avessero vinto non sarebbero usciti. I giocatori mi dissero: “Benvenuto alla Roma”. Non fu un inizio facile, ma alla fine Ranieri sistemò la situazione, un po' come sta facendo ora".

Come si costruì la rimonta che fece la Roma?

“Io e Claudio avevamo lavorato alla Juve, quindi lui mi chiamò e mi disse: “Devi venire, perché qui è una situazione difficile”. Io mi calai nella parte, venivo da quattro anni di Juventus, e cercai di far capire anche ai miei giocatori che erano una squadra forte, isolandoli dal mondo esterno. Io nella mia carriera ho vinto sempre, ma non ho mai fatto differenza tra vincere o meno. I giocatori e i membri di un club sono chiamati a fare ciò che è meglio per la società sotto aspetti diversi, quindi i giocatori dovevano allenarsi e noi recuperare il legame con la piazza. Rimasi basito appena arrivato perché c’erano due spogliatoi, uno per i più importanti e uno con i più giovani. Mi sembrò una cosa fuori dal mondo, la squadra è una sola: facemmo uno spogliatoio unico. Volavano con i voli di linea, con i tifosi, ed era un continuo aumento di stress. Mi sembrava inammissibile per una squadra che voleva vincere e così iniziammo a volare con voli privati per recuperare la tranquillità che serve agli atleti, per essere nelle migliori condizioni per mostrare il loro talento. E poco alla volta grazie a Claudio ci riuscimmo. Ricordo che una volta parlando con lui mi accorsi che la squadra aveva recuperato fiducia, e feci questa tabella in cui scrissi che mancavano nove partite, sei fuori e tre in casa, ma c’erano la Juve e l’Inter. Scrissi quante vittorie dovevamo fare e un giornalista de La Gazzetta dello Sport la trovò e la pubblicò. Il mondo dello sporto è molto superstizioso, ma io non pensai che potesse portare fortuna, e decidemmo che in ogni partita vinta avremmo fatto un regalo alla squadra, non di tipo economico, ma cose banali come un telefonino o una tv, regali uguali dal capitano ai magazzinieri. Infilammo tutti quei risultati e a quel punto eravamo quasi in testa al campionato. Noi siamo stati per quaranta minuti campioni d’Italia, mentre al mio arrivo buttavano i pomodori, alla fine del campionato la gente ci fermava, non ti facevano pagare ai ristoranti”.

Veniamo a Francesco Totti, che lei ha paragonato a Michael Jordan. È stato sbagliato qualcosa per la fine della sua carriera? Nel 2019 disse che lo avrebbe visto come un vicepresidente esecutivo, sono passati cinque anni: uno come Totti oggi che ruolo potrebbe ricoprire?

“Francesco rientra nella piccola categoria dei campioni. Io ne ho visti tanti di giocatori, ma come Francesco ne ho trovati pochissimi. Jordan fa la sua miglior stagione verso i 40 anni, ma non dimentichiamoci che Totti ci fece qualificare in Champions segnando tutti gol negli ultimi minuti al penultimo anno di carriera. Io mi sono occupato del passaggio di proprietà dall'Unicredit agli americani, e ricordo che mi chiesero come poteva essere la Roma del futuro. Io dissi che avrei visto Totti dirigente con un ruolo operativo. Non gli si può chiedere di specializzarsi nell’oratoria, o in cose non sue. Ma certe sue doti potevano essere molto utili. Io non ne avevo mai parlato con lui, però lo vedevo adatto a fare quel ruolo, poi con l’arrivo degli americani si portarono due dirigenti e non ci trovammo sulle stesse idee, e con molta umiltà feci un passo indietro. Ma l’ho sempre visto bene da dirigente”.

Nel secondo anno diventa direttore generale dell’area sportiva, ma era arrivato come ottimizzatore delle risorse umane dell’area sportiva. Perché questo tipo di carica abbastanza singolare?

“Abbiamo cercato una formula che mi facesse entrare in punta di piedi in società senza urtare la sensibilità di chi già lavorava, ma il mio ruolo era abbastanza chiaro, sotto la presidentessa. Era come fanno nelle università o nelle grandi aziende".

Si è spiegato mai perché non si riesce a fare lo stadio della Roma?

“Bisogna dividere il discorso in due macro temi: il primo è che una società ambiziosa come la Roma deve avere uno stadio di proprietà e poter fare una programmazione di cinque otto anni, a medio lungo termine. Alla Juventus non fu facile, ad un certo punto sembrava potessimo non farlo più e minacciai le dimissioni, perché cambiava proprio lo stile della società. E poi uno stadio come quello della Juve, con il primo tifoso a cinque metri dal campo, ricordo che dissi che avrebbe garantito un minimo di 15-18 punti in più a campionato. E quando hai un matto che dice così tutti si sono convinti a farlo, ma io ci credevo veramente, e infatti i campionati vinti negli anni dopo arrivavano sempre dai punti guadagnati nei secondi tempi delle partite in casa. Una società come la Roma deve avere uno stadio di proprietà. E poi Roma è una città complicata, in cui si sono fatte però tante cose perché le persone fanno la differenza, e perciò anche con questo discorso bisogna essere rigorosi e responsabili. E credo che in questo modo anche a Roma le cose si possano fare”.

Lei tempo fa ha detto di rivedersi in José Mourinho: come giudica il suo percorso alla Roma?

“Intanto a me era molto simpatico, entrambi avevamo sempre giocato per vincere quindi vedevo in lui la stessa mentalità. Lui ha detto a mio avviso una delle cose più importanti sul calcio: “Chi sa solo di calcio non sa niente di calcio”, vi lascio immaginare la mia simpatia per lui, visto che poi io venivo accusato di non venire dal mondo del calcio. Per una dirigente non ci sia soddisfazione maggiore di lavorare a Roma, la Roma ha il tifoso più fidelizzato del mondo. Negli ultimi anni con Mourinho si riempiva uno stadio solo per attaccamento, credo non ci sia miglior posto per fare sport che alla Roma. Ho vinto uno scudetto con la Roma pallavolo, e tutti mi sconsigliavano di andarci. A Roma si può vincere: basta fare le cose giuste. Se tu non gli racconti bugie, il tifoso romanista sarà sempre con te”.

Claudio Ranieri, lei lo consoce bene. Ora è allenatore, ma anche dirigente della Roma. Lei ha fatto un percorso simile: che dirigente sarà per lei?

“Conosco bene Claudio, l’ho avuto anche alla Juventus. Ho letto bene il comunicato della proprietà: parlano di ruolo di consulente senior per lui. In questo ruolo secondo me ci sta dentro anche una scelta oculata della proprietà nel mettersi al proprio fianco una persona come lui, anche per le questioni extra campo come le relazioni. Credo che come sta facendo benissimo anche adesso recuperando i giusti valori di questa squadra, sarà una risorsa per la proprietà anche per le scelte future”.

“Un’ultima cosa, ho un ricordo del vostro quotidiano perché la comprai e dopo tanti anni ce l’ho ancora. Era la prima pagina del mio primo giorno alla Roma, c’era la mia foto mentre do la mano a Totti sotto al temporale, e il titolo era “Il Parafulmine”. Mi avete accolto così, però è stata una bellissima esperienza. E il titolo era centrato in pieno, ebbi quella sensazione anche io, fu un titolo bellissimo e infatti anche se non conservo niente quello lo tenni”.
 
 

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