Interviste

«Forti e liberi, il segreto del successo»

Riccardo Luna: «È stata subito un’avventura emozionante e folle, è fantastico che 20 anni dopo siate ancora qua»

Riccardo Luna, Daniele Lo Monaco e Tonino Cagnucci

Riccardo Luna, Daniele Lo Monaco e Tonino Cagnucci (MANCINI)

PUBBLICATO DA Tonino Cagnucci e Daniele Lo Monaco
10 Settembre 2024 - 07:00

Una chiacchierata in forma di intervista col fondatore de Il Romanista, Riccardo Luna, primo direttore di questo quotidiano che non è mai stato solo un quotidiano, e che adesso è soprattutto una radio, ma che continua a essere anche altro, forse soprattutto una comunità. «Quello per me è stato ed è un modello che ho replicato dovunque poi sono andato». Luna ha diretto il giornale dal 10 settembre 2004 al 2008, lo ha guidato durante quell’esperienza clamorosa che è stata Calciopoli: nata giornalisticamente a via Barberini grazie proprio a un “lettore”. Il Romanista è stato soprattutto scambio, in quegli anni, famiglia per chi gli ha dedicato più o meno tutto. «Nessun matrimonio poteva reggere una cosa così, c’era l’amore per la Roma e l’amore per il giornalismo». Chi scrive c’era all’epoca e c’è adesso («ci siamo separati tutti e tre»). Parlarne insieme per il ventennale è stato per certi versi doveroso, per altri un modo per ricongiungere e ritrovare anni che sono stati anche difficili e quel filo (giallo)rosso che per forza di cose ha intessuto vite e carriere da vent’anni a, speriamo, sempre.

Cos’è Il Romanista?

«Il Romanista è una delle tre-quattro cose più belle che ho fatto nella mia vita professionale, che è stata oggettivamente fortunatissima. Tra tutti i lavori che ho cambiato io, l’esperienza al Romanista è stata sicuramente la più intensa, per certi versi la più emozionante. La più folle. Passavamo tutti i santi giorni, e spesso le notti, in redazione, vivevamo là dentro. È stato folle. Ma splendido».

Ancora oggi, Il Romanista è l’unico quotidiano al mondo dedicato a una squadra di calcio.

«E qui, in questa occasione, io voglio ancora dare i meriti giusti a Carlo Zampa, perché l’idea del Romanista è stata di Carlo Zampa.  A me dispiace di non aver recuperato il rapporto con Carlo, se c’è bisogno dico ancora scusa, ma di più non posso fare. Ci fu un equivoco sulla sua presenza in prima pagina nel primo numero. Ma non fu cattiveria. Carlo ebbe l’idea di fare un giornale sulla Roma, mi chiamò, ci vedemmo in una piazza davanti al Senato, aveva una copia del Riformista. Questa è la storia».

La storia che porta a quella del Romanista.

«Io ero disoccupato, dovetti imparare a fare l’editore, quanto costava la carta, la distribuzione e tante cose simili. Mi sono reinventato. Il Romanista è nato anche perché in quel periodo avevo avuto un infortunio abbastanza serio: mi era uscita un’ernia cervicale e dovetti andare in giro con il collarino per tre mesi. E così vedevi questo folle andare in giro per Roma, con una ventiquattro ore, con questo piano industriale in testa a cercare i soldi per far nascere Il Romanista. Chiedevo 25.000 euro a ogni socio. Ne trovammo 49! Fu una cosa pazzesca. Col tempo ho pensato che i soldi me li hanno dati perché mi vedevano arrivare con questo collarino e gli facevo pena».

Il giornale di una passione.

«La Roma è formidabile, quando raccontavi quest’idea di un giornale della Roma a tanti romanisti con i soldi piaceva un sacco. E tanti parteciparono per l’idea e basta, senza ritorni. Penso ad Antonello Venditti, per esempio. O a Maurizio Costanzo che non conoscevo e che è stato fondamentale: ci ha messo più soldi di tutti. Giovanni Malagò, pure, che conoscevo relativamente bene, s’innamorò dell’idea e portò 14-15 soci dei 49 che aderirono. Mio padre mi sorprese, avevo un rapporto complicato con lui, ma capì che era il momento e mi diede anche lui i soldi. Oltre a firmare una rubrica, la “Colonna Infame”,  prendemmo denuncia per diffamazioni al numero 3 del Romanista da Giorgio Tosatti. La prima di tante».

Ti sei mai pentito?

«Nooo. No. E no. Il Romanista è stata un’impresa editoriale strepitosa, ci siamo anche tanto divertiti. È un’esperienza piena di ricordi meravigliosi. Abbiamo fatto Calciopoli. Abbiamo fatto una roba meravigliosa. Se il sistema non si fosse messo contro Il Romanista e non ci avessero tolto un milione e ottocentomila euro, io stavo ancora qua. La mia idea è che Il Romanista sarebbe diventato il giornale di Roma. L’idea, adesso lo dico male, era prendere il posto del Messaggero, del Tempo. Fra l’altro giornalisticamente eravamo una squadra di fuoriclasse: c’eravate voi due, Andrea Di Caro, Francesco Campanella, Pasquale Salvione, Francesca Spaziani Testa, Luca Pelosi, i giovani come la Zucchelli; c’era Vittorio Mogetta che nella sua follia era il miglior art director in circolazione. Gente che ha dato il cuore. Tutti ci abbiamo messo tutto per la Roma e per il lavoro».

Il rapporto con la società.

«A un certo momento con Rosella Sensi ho avuto un rapporto conflittuale. Mi dispiace, non si fidava, temeva fosse una operazione per portarle via la Roma, ma non per me. Vi racconto un episodio. Quando Il Romanista arrivò in edicola un socio venne da me: “Proviamo a comprarci la Roma”, mi disse. E io: “Ok, vai in assemblea e coinvolgi gli altri 48 soci”, gli rispondo. “Ma non siamo qua per questo?”. No, gli dico, siamo qua per fare un giornale. Ci rimase male e non mi ha più parlato».

Il ruolo dei soci.

«Calcolate che il gruppo dirigente a dicembre del 2004 voleva chiudere il giornale, la Roma in quello scorcio non andò bene e noi vendevamo di media 3.000 copie quando il break even era di 6.000. Oggettivamente la situazione era critica, stavamo perdendo troppi soldi e i soci mi dissero “chiudiamo”. Un ruolo importante lo giocò la mia ex moglie, mi disse “alza il culo, vai dal Consiglio di amministrazione e convincili a farti nominare amministratore delegato (visto che si era dimesso Bevilacqua)”. Li convinsi, a quel punto in un ruolo che nemmeno avevo mai immaginato di ricoprire fino a quel momento, chiamai un aumento di capitale da 500.000 euro e Costanzo fu uno dei pochissimi a metterceli, da solo ce ne mise 100.000. Resistemmo, ripartimmo meglio, la Roma andò bene, poi benissimo e il giornale volò».

Come?

«Con le magliette del record di Totti e delle vittorie pagammo gli stipendi per un po’: vendemmo 50.000 magliette a 10 euro. I tifosi hanno cominciato a riconoscersi, il giornale cresceva, migliorava, insieme alla Roma. Abbiamo avviato raccolte fondi, come quelle che hanno portato a comprare un’ambulanza intitolata Luisa Petrucci, il circo con Totti e i bambini, un contributo per riqualificare il carcere femminile di Rebibbia, “Mai sola mai” di Marco Conidi, la festa a Testaccio dove ci fu un mare di gente. Poi Calciopoli».

Come nasce Calciopoli?

«Mi ha chiamato una persona che non conoscevo: “Direttore, le devo parlare, se può scendere un attimo per favore”. Eravamo a via Barberini. Scendo, e lui mi consegna una busta, dentro c’era un dischetto: “Questo è per quello che le hanno fatto con le sue inchieste saltate”. In quel file c’era dentro tutta la storia di Calciopoli. Ancora oggi non so il nome di questa persona, avrà avuto una quarantina d’anni. Non  so proprio chi fosse. Posso immaginare l’interesse. C’era un’indagine a Napoli, qualcuno avrà pensato di farla uscire per accelerarla, non per disturbarla. Qualcuno, soprattutto, avrà pensato “ma chi è così folle e libero da poterla pubblicare? Quale giornale?”. Il Romanista era folle e libero. Poi ebbi la fortuna di fare un’operazione giornalistica strategicamente fondamentale per far crescere e sbocciare Calciopoli. Accanto a noi, proprio a via Barberini, c’era la redazione della Stampa e un giornalista, Andrea Malaguti, che oggi è il direttore, super libero e indipendente che avevo conosciuto al Corriere dello Sport. Mi resi conto che se questa cosa la pubblicavamo solo noi dentro al Raccordo Anulare era un conto, se la pubblicava anche qualcun altro sarebbe stato diverso. Tutti i giorni la Stampa usciva con la dizione: “Secondo le carte in possesso de Il Romanista”. Fantastico. Ovviamente quelle carte, quella roba è stata formidabile. Io mi mettevo nella stanzina chiuso a ricostruire tutta la storia. Ma era tutto insieme, in quell’unico file».

Gli strascichi di Calciopoli.

«A rivederla oggi la Juve in B mi sembra una roba grossa, per il Paese che siamo fu una rivoluzione. Io fra l’altro ho preso una raffica di querele e denunce per diffamazione e le ho vinte tutte, tutte tranne una che sono contento di aver perso. Ho respinto con successo le richieste milionarie Moggi, Geronzi, Carraro... Ne ho perso solo con Sandreani, quasi simbolica, perché nelle carte c’era scritto che era indagato quando in realtà non lo era. Un passaggio minimale nelle nostre cronache, ma effettivamente non era mai stato iscritto nel registro degli indagati. Giusto così. È l’unica sconfitta che ho avuto in tribunale nella mia attività da giornalista».

Il Romanista lì entra in un’altra dimensione.

«Diventiamo il giornale di Calciopoli. Tutti cominciano a guardarci in maniera diversa. Da parte nostra noi aiutammo la Roma a non cadere nelle spire di Moggi. Ecco lì provammo a fare una public company della Roma, un azionariato popolare. Non andava bene alla proprietà ho capito solo dopo il perché: loro giustamente nel caso provavano a vendere la Roma per rientrare dello sforzo economico, se avessimo fatto l’azionariato popolare non avrebbero venduto ma l’avrebbero passata di mano».

Nemmeno la Roma a favore, e tutti contro.

«Con Calciopoli avevamo contro tutti, tranne i presidenti della squadre di provincia, che non si erano piegate a certe logiche, Moratti e Baldini. Eravamo gli anti sistema. I rapporti buoni li avevamo con Totti, Spalletti, anche Daniele (De Rossi) che era giovane, gran parte della tifoseria, la Sud, e poi i Roma Club di Fabrizio Grassetti e Francesco Lotito. Ci cercavano tutti i media nazionali e internazionali in quel periodo per quello che avevamo fatto e che continuavamo a pubblicare, in anteprima. Giornalisticamente un punto altissimo».

Nella realtà un momento durissimo.

«Tutta l’operazione Il Romanista, il quotidiano dei tifosi più tifosi del mondo, si reggeva sul fatto che avremmo dovuto prendere i contributi per l’editoria a cui avevano diritto le cooperative dopo tre anni. In realtà quando noi andiamo in edicola, loro cambiano la legge e gli anni diventano cinque. Ci spettavano 1,8 milioni, e con quelli saremmo stati felici e più forti che mai. Succede che Palazzo Chigi approva l’assegnazione dei contributi all’unanimità, brindiamo,  mi chiama il segretario generale di Palazzo Chigi: “Complimenti, avete preso i contributi ma per sicurezza, solo per scrupolo, mandiamo la vostra pratica al Consiglio di Stato”. Il Consiglio di Stato ci blocca tutto, facciamo ricorso una, due, tre volte e viene sempre respinto quando inizialmente era stato approvato all’unanimità. Ci eravamo fatti un culo enorme, avevamo sacrificato tutto, pure le famiglie, era tutto vero e perché ci fanno questo?».

Perché?

«Non sono un vittimista, ma il sistema non era felice di quel Romanista, ci eravamo messi contro troppa gente importante, troppi poteri forti, meglio che evito i nomi, ma potete immaginarli. Noi eravamo un problema per tutti loro. E non avevamo nessuna intenzione di cambiarci».

Stare al fianco della Roma, che non significa poggiarsi su posizione acritiche è sempre stata una mission del giornale, a un certo punto però ci fu anche una specie di campagna contro la società.

«Tutti noi abbiamo fatto degli errori, abbiamo passato quattro anni della nostra vita giorno e notte là dentro e a un certo punto si stava sgretolando tutto… È stata durissima. Dovetti pensare di salvare il giornale dal fallimento, ci aiutò Francesco Totti, i creditori ci abbonarono qualcosa,  riuscimmo a scavallare il momento in qualche maniera facendo ulteriori sacrifici. Poi in quel periodo mi arriva la chiamata da Conde Nast per guidare Wired… Stavano provando a lanciare questa rivista di tecnologia da anni in Italia e non ci riuscivano e, forse, uno che era riuscito a fare per 4 anni quella roba lì col Romanista ci sarebbe potuto riuscire. Io avevo tutti contro, la soluzione migliore fu farmi da parte per il giornale. Il finale fu molto duro».

Dopo Il Romanista.

«La mia vita professionale è decollata. Adesso sto pensando a come uscire di scena e come dare una mano ai giovani a crescere. Io ho cambiato lavoro ogni 3-4 anni, adesso mi occupo di tecnologia e sostenibilità. Mi dimisi dal Romanista il 12 febbraio 2008, il giorno dopo stavo in aeroporto in partenza per New York e mi chiama Bruno Conti emozionato: “Davvero lasci il giornale?”. Dovevo. Ho avuto qualche anno di rigetto. Poi, dopo che era nata mia figlia proprio in coincidenza con la nascita del giornale, nel 2009 nasce mio figlio. Con lui sono tornato a vedere la Roma. All’addio di Totti piangevo a dirotto, come tanti di noi: c’ho visto la vita che se ne va, tutto quello che avevamo passato anche insieme. Totti è stato sempre vicino al giornale anche nei momenti difficili, anche quando i rapporti con la proprietà non erano idilliaci, curava la rubrica della sua posta con noi, ci permise di utilizzare la testata Number Ten. E io, nel momento più difficile, provai a salvare il giornale passandolo a Totti, fu una trattativa infinita, c’era Veltroni che si era impegnato ma poi non si concretizzò. Quel giorno allo stadio abbiamo pianto e mio figlio non capiva. Adesso che è un adolescente la Roma è un grande punto di contatto tra noi».

Il Romanista dopo Il Romanista.

«Ho ammirato incredibilmente il coraggio di voi quando siete tornati in edicola nel 2017. Stupefacente, una resilienza incredibile. Però avete avuto la bravura che avemmo anche noi ai miei tempi, cambiare restando noi stessi, certe battaglie, l’importanza dei social, adesso la radio... Io vi ho guardato online, guardato le prime pagine online, leggevo sempre i pezzi di Tonino… Avete resistito e vi siete rilanciati. Il Romanista continua… Tanto è vero che ancora oggi quando vado in giro a Roma, nei bar, al fare la spesa, nei taxi “ah diretto’ che pensa della Roma?”, per tutti io sono quello del Romanista. Io so’ quella roba là, nessuno mi chiede di internet, mi chiedono di De Rossi. Fuori da Roma invece un po’ diverso (ride, ndr), ma solo una volta mi sono preso un vaffa… qualche insulto, niente di che. Ma certo quella roba là di Calciopoli è stata grossa. Ho tutta la collezione del Romanista… Tutte quelle prime. “Ladri per sempre”».

La carta è definitivamente morta?

«No. Come mensile può funzionare. Come numero speciale può funzionare. Io leggo i giornali sul telefonino, ma se vedo una roba importante vado in edicola. È come quando ti riconosci un premio e vai al bar e ti prendi un cannolo siciliano. Non bisogna più partire da lì, ma casomai arrivarci. Guarda il Post che è un sito, è in attivo e pure fa i libri del Post, le loro pubblicazioni sono operazioni importanti. Noi ne facemmo tante e una che voglio ricordare».

Ricorda.

«Noi siamo stati un giornale idealista e sempre attento ai diritti civili e riuscimmo a distribuire insieme al quotidiano migliaia di dvd de La vita è bella; ancora mi chiedo come riuscii a convincere Cecchi Gori a darci i diritti di quel film e Roberto Benigni a scrivere in prima pagina per noi. Una grande operazione contro il razzismo. Ma voglio ricordare il giornale fatto nei giorni della morte di Wojtila, il pezzo di Luciano Spalletti contro la violenza e i coltelli prima di Roma-Napoli… Tutte cose da Romanista. È stata una cosa di un’intensità clamorosa… Noi facciamo i giornalisti perché siamo innamorato del giornalismo, Il Romanista è stata la storia d’amore più travolgente che ho vissuto. E il fatto che questa roba sia ancora qua… Dici: “ok, abbiamo fatto un grandissima stagione per 4 anni e poi è finita? No, davvero”. Siete ancora qua, siamo ancora qua».

Eh già.

«È stato tutto di un’intensità incredibile e tutto quello che ho imparato mi è servito dopo. Prima del Romanista ero stato costretto a smettere di fare il giornalista per motivi, diciamo, “politici”: mi era stata bloccata una mia inchiesta sui padroni del calcio, una specie di anteprima di quella che sarebbe stata Calciopoli. Restai a spasso e per sei mesi rimasi senza lavoro. Il Romanista mi ha salvato. Se il senso della vita non è dare più giorni alla vita, ma mettere più vita nei giorni, noi non ci abbiamo messo così tanta vita come in quei giorni».

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