Interviste

Lucchesi: "Lo Scudetto fu opera di Franco Sensi. Avremmo potuto vincere di più"

L'ex dirigente giallorosso, campione d'Italia con la Roma nel 2001, è intervenuto a Radio Romanista: "Totti è un campione, De Rossi ha rimotivato i calciatori"

Lucchesi durante una conferenza

Lucchesi durante una conferenza (GETTY IMAGES)

PUBBLICATO DA La Redazione
30 Marzo 2024 - 09:45

Ai microfoni di Radio Romanista è intervenuto Fabrizio Lucchesi, dirigente sportivo con un'esperienza alla Roma culminata con lo Scudetto nel 2001. Tra i ricordi risalenti alla magica annata di 23 anni fa e uno sguardo alla Roma di oggi, queste sono state le sue parole:

Lei ha controbuito a costruire con il Presidente Sensi la Roma che avrebbe poi vinto lo Scudetto. Come fu possibile? La vittoria della Lazio nel 2000 influì o giocatori come Batistuta sarebbero arrivati in ogni caso?
"Buongiorno, voglio iniziare ringraziandovi per permettermi di parlare di un periodo della mia vita così bello. Riguardo la domanda, fu un insieme di cose, il percorso iniziò con l'arrivo di Capello che portò qualcosa di diverso a livello manageriale, ma il primo grande artefice di tutto fu Franco Sensi, che volle dare qualcosa in più alla Roma, e che quando rimanevamo da soli mi diceva: 'Sono vecchio, devo provare a vincere'. La vittoria della Lazio diede un'accelerata ad un piano di investimenti che passò dall'essere triennale all'essere biennale proprio perché Sensi voleva reagire ad uno Scudetto che aveva colpito il suo sentimento da romanista vero. Io ero arrivato da poco più di un anno e in quel momento capii la rivalità tra Roma e Lazio. Fortunatamente avevamo degli ottimi giocatori, la conferma di Zago, Candela, Cafu, Tommasi... un primo tassello fu Montella, poi eravamo entrati negli anni migliori della carriera di Francesco Totti, era uno spettacolo, roba da pagare il biglietto per vederlo in allenamento. Arrivarono Batistuta, Emerson, Samuel, sbagliammo poco, probabilmente abbiamo avuto un po' di fortuna ma sbagliammo poco in campionato e anzi abbiamo raccolto poco in Europa, perché potevamo fare di più".

La stagione però partì con lo Scudetto della Lazio, l'infortunio di Emerson e la sconfitta in Coppa Italia contro l'Atalanta: in che momento avete capito che poteva essere l'anno buono? La Roma quell'anno d'altro canto perse solo tre partite, c'è stato un momento in cui ha pensato di non farcela?
"Non abbiamo mai pensato di non farcela. Avevamo paura magari inconsciamente che potesse succedere qualcosa, ma anche la contestazione dopo la partita di Bergamo, tra l'alto giusta perché facemmo una partita indegna, fu un atto d'amore: la squadra era forte e sapevamo di avere un gruppo forte, serviva una presa di consapevolezza che ci facesse dire: 'Siamo forti, ma qua se non si fanno le cose bene non si va lontano'. Fu un insieme, quelli della contestazione furono tre giorni drammatici che probabilmente ci fecero anche da stimolo. A Natale arrivammo con un margine importante e cominciammo a capire che potevamo arrivare fino in fondo, ma la vera paura di non arrivare ci fu solo nelle ultime partite, perché tutti ormai ci davano per vincenti. Fortunatamente la nostra era una squadra di campioni, perché oltre che sul piano tecnico erano forti anche dal punto di vista umano. Era uno spogliatoio con tante anime e quando ci sono tanti campioni è più facile che ci siano attriti, ma lì prevalse l'idea che il bene collettivo fosse più importante, vennero messi da parte eventuali frizioni legate al 'chi gioca, chi non gioca' e arrivammo alla vittoria. Però anche la notte prima del Parma la passammo in bianco".

Totti era reduce all'epoca da un grande Europeo, era capitano di un gruppo di campioni nonostante avesse solo 25 anni, che rapporto aveva con lui? Che apporto ha dato Totti anche fuori dal campo l'anno dello Scudetto?
"Francesco è un campione in campo e fuori, è un ragazzo di una semplicità assoluta, ed è un leader. Non perché aveva la fascia al braccio, ma perché era riconosciuto come tale. Leader è chi è dotato di autorevolezza, e quella non la compri, o ce l'hai o non ce l'hai. Il suo modo di fare poi, anche se era un protagonista assoluto non è mai stato autoritario: lui non si è mai messo davanti agli altri, e infatti era il punto di riferimento di tutti. Non perché ti faceva vincere le partite, ma perché aveva intorno quest'aura che solo i grandi campioni hanno. Francesco è un ragazzo dolce, generoso, amato da tutti. Ho dei ricordi personali in cui ho apprezzato la bontà di questo ragazzo che stava esplodendo. Io ho avuto la fortuna di lavorare con Francesco dai suoi 23 ai 27 anni, e nonostante il Mondiale vinto a 30, secondo me quelli sono stati gli anni più belli di tutti. Con lui c'era sempre dialogo e anche quando c'era qualche piccola discussione Capello di lui mi diceva: 'Tanto è tuo nipote!'. Nello spogliatoio c'era la voglia comune di fare bene, Francesco era il punto di riferimento per tutti, l'unico problema era la gestione dell'affetto intorno a lui, che andava gestito nella quotidianità, perché stava diventando quel fenomeno mediatico che è tutt'ora".

Di quella Roma si dice spesso che "ha vinto solo uno Scudetto". Perché non si è vinto di più?
"Io ho cercato una spiegazione a ciò, trovandone molteplici. La più semplice è che quando compi un'impresa straordinaria come facemmo quell'anno a Roma, ripetersi è sempre più difficile. Per fare un esempio, si guardi a quanto è successo a Napoli quest'anno. Secondo motivo, la Roma non era una squadra abituata a vincere e capace dunque di gestire l'entusiasmo che si era creato intorno a noi; inoltre un pochino di appagamento non dovrebbe esserci ma è fisiologico. Metti insieme questi fattori, e aggiungi che secondo me - e sono convinto di ciò - dallo Scudetto in poi cominciarono anche a metterci un po' nel mirino: noi vincemmo lo Scudetto non solo perché eravamo più forti, ma anche perché nessuno pensava realmente che lo fossimo. In quel periodo c'erano sette squadre fortissime: le romane, le tre del Nord, il Parma, la Fiorentina. L'anno dello Scudetto ci davano per favoriti, ma poi spesso la Roma sul campo ha disatteso i pronostici. Quell'anno invece prendemmo in contropiede tutti, perciò l'anno successivo qualcosa questi fattori ci tolsero. Io sono convinto che l'anno dopo eravamo anche più forti, arrivarono Cassano, Assuncao, Panucci, ci rinforzammo, ma per questo insieme di motivi credo che non abbiamo dato continuità, perché per i giocatori che avevamo sono convinto che avremmo potuto vincere di più".

Con lei comincia a muovere i primi passi nel calcio, ad Empoli, Luciano Spalletti. Fu importantissimo per Totti, poi col tempo il suo rapporto col capitano e con la Roma è andato a deteriorarsi. Lei che ha lavorato con entrambi, come ha vissuto la tensione tra i due?
"Sono due persone generose, d'animo, pulite, purtroppo fanno due mestieri diversi. Io non mi sono mai permesso di entrare in merito, di dire chi avesse ragione e chi no, dico che secondo me quella vicenda fu gestita male in generale. Totti non è un calciatore normale, Totti è il campione dei campioni, nella storia della Roma oltre a Bruno Conti non me ne vengono in mente altri come lui, anche se era a fine carriera non poteva arrivare a finire in quel modo. L'allenatore doveva vincere le partite e la società non prese una posizione chiara. Fu una vicenda che ha fatto male a tutti. Ho sentito che adesso hanno chiarito: mi farebbe piacere questo, perché sono due persone a cui tengo e che hanno dato tanto alla Roma. Luciano ha vissuto un periodo aziendalmente difficile per la Roma, ha fatto molto bene, poi quando è tornato ha fatto bene ancora, ma Totti è Totti e lo sarà per i prossimi 100 anni".

Con lei arrivò il primo contratto da professionista per Daniele De Rossi, compagno per tutta la carriera di Francesco Totti e adesso allenatore della Roma. Che idea si è fatto di De Rossi come allenatore?
"Era il 2001. Ti racconto come arriva De Rossi in prima squadra: un giorno arrivò in sede Capello, dopo un allenamento del giovedì mi disse: 'Mi hanno segnalato questo ragazzo degli allievi, l'ho visto, aggregalo alla Prima Squadra'. Gli dissi: 'Fabio, se aggreghiamo uno degli Allievi alla Prima Squadra ai giocatori della Primavera cosa raccontiamo?'. Era metà stagione, bisogna fare anche questi ragionamenti nella gestione di una rosa, ma Capello con tutta la democrazia del campione quale è mi rispose: 'Guarda, sono problemi tuoi, non miei'. Non avevo mai visto De Rossi, quando lo vidi, chiesi a Bruno Conti: 'Ma dove lo avete trovato?'. Aveva tutto, qualità, si impegnava e lavorava a testa bassa senza parlare mai, picchiava come un fabbro: sembrava un predestinato. Nel 2001 aveva ancora 17 anni e gli facemmo il contratto, adesso sono felicissimo che stia dimostrando che non è solo 'cuore e polmoni' come si è sempre detto e come si pensava quando è arrivato, sono contento che stia facendo bene dove altri prima di lui hanno fatto fatica".

Fino a gennaio tra i tifosi e gli addetti ai lavoratori c'era la convinzione che la Roma non avesse la rosa adatta per competere ad alti livelli in campionato. Poi è arrivato De Rossi che ha infilato una serie di risultati che, almeno in Serie A, a Roma non si vedevano da un po', e la squadra adesso è quinta in solitaria a tre punti dal quarto posto. Qual è secondo lei la reale dimensione della Roma?
"Dalla Roma dobbiamo aspettarci che giochi al massimo le prossime partite per finire al meglio il campionato. Io a inizio anno non ho mai reputato la Roma una squadra da secondo o terzo posto perché secondo me ci sono 2-3 organici più forti; e se nella partita secca può succedere qualunque cosa, nel lungo periodo vengono fuori i valori. Secondo me la Roma non era tra le più forti, ma era una buona squadra che poteva stare a ridosso delle prime posizioni. Purtroppo nella prima parte di stagione non era squadra, ha fatto fatica, e De Rossi quando è arrivato ha fatto la cosa più difficile per un allenatore: ha quadrato la situazione, con i giocatori che lo seguono e gli danno quel 100% che non davano prima, perché questa è la verità. De Rossi sta tirando fuori il massimo dalle risorse umane che ha a disposizione, e questo fa la differenza tra gli allenatori, perché l'allenatore vale di più quando, a parità di risorse umane, riesce a tirare fuori il meglio dai giocatori. Lui è riuscito a ricompattare l'ambiente e ritrovare nella squadra uno spirito che si era perduto. Spero che questo trend non finisca, poi i conti si faranno alla fine: la Roma deve provarci fino alla fine, ma intanto sta raddrizzando una stagione che pochi mesi fa stava andando pesantemente a rotoli".

Che intende quando dice che i giocatori prima di De Rossi non davano il massimo?
"I giocatori sono uomini e ci sono dei momenti in cui si riesce ad entrare nelle corde di un uomo: ci sono volte in cui si va al campo ad allenarsi per due ore perché è come timbrare un cartellino, e ci sono volte in cui si va al campo ad allenarsi per due ore, faticando di più perché si sente l'obbligo di migliorarsi, perché qualcosa o qualcuno ti ha dato questa motivazione. Questa è la differenza tra ieri e oggi, ma in generale è la differenza tra gli spogliatoi in cui le cose girano e queli in cui non vanno. L'atleta è un umano, se riesci ad entrargli nelle corde ti dà l'anima, altrimenti comunque qualcosa ti dà, perché non parliamo di disonesti. Ma se prendi competizioni in cui la differenza è minima e spesso la fanno i dettagli, questo può essere un fattore e sicuramente è la differenza tra la Roma di prima e la Roma di adesso".

© RIPRODUZIONE RISERVATA

CONSIGLIATI