Come si guarda la Roma
Il tacco di Pellegrini sotto la Nord, Kolarov al 71’ sotto la Sud dove una volta c’erano le barriere e ora invece si tolgono da sole o con una finta di Dzeko. Ma soprattutto un megafono, un tamburo, cento bandiere e...
La vittoria splendida e romanista di ieri si porta dietro un sospiro di sollievo che è quasi un uragano, troppo per non riflettere sia su come e perché la Roma abbia potuto (non) giocare a Bologna o nel primo tempo di Milano e con l'Atalanta e farsi rimontare due gol da chi sta ancora sottozero in classifica; ma insieme fa riflettere (che poi non è una riflessione, sono gli strascichi, gli stress che ci portiamo dietro, le ferite di chi ama troppo - dicono - la Roma) su tutto quello che è stato detto, scritto e vomitato sulla Roma. Criticare sì, prendere per il culo e sfregiare la Roma no. Contestare sì, provare gioia e aizzare a ogni angolo qualcosa di veramente simile all'odio nei confronti della Roma e di ciò che le gira attorno no, contestare soffrendo perché te la stai prendendo con una cosa che è tua sì, provare gioia perché "te l'avevo detto" no.
In questi giorni non c'è stata la Roma in campo, ma non c'è stata nemmeno fuori. La Roma non ha mai perso quell'orgoglio smodato, quell'impunità riservata a chi si è sempre sentito privilegiato anche se per 41 anni non ha vinto uno scudetto, pure se tra giugno dell'86 e quello del 2001 ha vinto solo una coppa Italia e visto vincere tutti gli altri, ma che guai a mettere in discussione la Roma come sentimento. Guai. Era l'epoca in cui allo stadio entravano i tamburi, i megafoni e si cantava: «Quando al ciel si alzeran le bandiere...». C'è stato troppo dolore prima e dietro questa partita, che il sospiro di sollievo che ne deriva è un vento che quasi rischia di offuscare una gioia pura come quella di vincere 3-1 segnando di tacco sotto la Nord, una punizione sotto la Sud al minuto giusto (che poi basta co' ‘sta storia, perché significa solo dare dignità a una data e a un minuto che devono amplificare gli altri, non certo chi è romanista) con le barriere che si levano da sole senza prefetto perché basta una finta di Dzeko.
Io mi prendo questa gioia da derby, questa gioia semplice e pura, spero che la Roma abbia veramente cominciato la sua stagione, perché con Atalanta, Milan, Chievo e Bologna non aveva nemmeno giocato a pallone, ma soprattutto spero che oggi, adesso, domani, in un giorno che mette il sorriso negli occhi di chi ama la Roma, si ricominci a guardarla come si guarda qualcuno che ami. Come si guarda la Roma. A guardarci fra di noi in un'altra maniera: con la Roma che è innanzitutto e sempre un bene da tutelare dagli occhi invidiosi degli altri.
E soprattutto, soprattutto, portandosi dietro - sia metaforicamente, sia per davvero - un vessillo di libertà e di appartenenza che non chiede autorizzazioni e che certo non si piega di fronte ai risultati: una bandiera giallorossa. La bandiera non si ammaina mai, tantomeno quando perdi. La bandiera non ha colpe, racconta la tua passione innocente. La bandiera non merita nemmeno uno sguardo fatto male, ma la cura di una mamma a un ragazzino prima di andare a dormire.
La Roma è sempre stata ‘sta cosa qua, da che mondo è mondo, perdere questo è peggio che perdere mille partite o la serie A. Come quando allo stadio andavi - anche perché potevi andare - coi megafoni e i tamburi e avevi solo una premura: far vedere al mondo quanto e cos'era per te la Roma. Solo questo. Tutto questo. Come in un derby perfetto. Ieri in Curva Sud c'era un megafono, un tamburo e centinaia di bandiere. E quando al ciel si sono alzate la Roma ha semplicemente ritrovato se stessa. Per questo ha vinto.
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