Superchi e Righetti: ragazzacci da Tricolore 40 anni dopo
Metti a pranzo ad Allumiere il più esperto e il più giovane della squadra dello scudetto 1982-83: ecco il racconto
Franco non sapeva niente. Grazie all'impeccabile organizzazione del figlio Giampaolo alle 13 è arrivato al ristorantino dietro casa ad Allumiere pensando di andare semplicemente a un pranzetto di famiglia. Ma quando è entrato - il video lo potete trovare sul sito de Il Romanista - si è trovato al tavolo un ragazzetto che ha conosciuto quarant'anni fa a Trigoria e con il quale negli anni il feeling è rimasto intatto. Franco Superchi e Ubaldo Righetti, il "Ciocio" e il "bimbo", il più maturo («non scrivere il più vecchio sennò s'in...quieta») e il più giovane della rosa che nel 1983 ha riportato a Roma il tricolore dopo quarantuno anni. Insieme a pranzo dopo tanti anni, davanti al taccuino del vostro cronista. Ne sono uscite due ore di ricordi commossi e risate viscerali, tra aneddoti raccontabili e altri che resteranno nel segreto del desco, come usa tra compagni di squadra.
«Sei sempre un figurino, ahò», attacca Ubaldo Righetti. «E come ho da esse?», la risposta di Franco, che da ora in poi metteremo in corsivo proprio per distinguere i due interlocutori senza togliere ritmo al racconto. «Dev'essere l'aria buona di queste parti, non è proprio vicino». «Ma io sono sempre stato qui, a Roma non ci ho mai vissuto». «Davvero? Tornavi sempre a dormire qui? Ma è un viaggio da Trigoria...». «Ma io pure quando facevamo doppia seduta tornavo a pranzo ad Allumiere. Per me casa è qui. Certo, ogni tanto mi annoio». «Vabbè, sei sempre il solito brontolone, me lo ricordo che ti lamentavi sempre». «Macché, io so' contento, lo sono sempre stato. Certo ogni tanto se qualcosa non mi piace lo dico». «Si sta meglio in provincia che in città, fai bene a stare qui. E te lo dico io che infatti in città non ci vivo. Nei paesi ci si parla ancora, ci si conosce tutti, ci si chiede "come va?"». «Ma io infatti sempre qua so' stato e ovviamente conosco tutti. E quando ho giocato a Firenze e a Verona le vacanze estive le passavo qui». «E come l'hai fatti vive' ‘sti pori figli... (e giù risate, col primo bicchiere di vino, ndr)». «Ahò, piano co' ‘sto vino. Io non bevo, poi me pija subito alla testa».
Il brindisi tra Franco Superchi e Ubaldo Righetti
L'atmosfera è subito cameratesca, per dei compagni di squadra che hanno oltretutto vissuto l'incredibile emozione di vincere uno scudetto a Roma, gli anni di lontananza si perdono anche nell'acqua minerale. Righetti di quella Roma era proprio il bimbo. Arrivò in giallorosso a diciassette anni, e strinse subito con Superchi, che invece arrivò qui nello stesso anno, ma per lui l'anagrafe segnava 36. Nessun nonnismo, però.
«C'era rispetto, io portavo la borsa a Turone, per esempio. Ma non me lo imponeva lui. Magari mi consigliava di farlo un magazziniere...». «Ammazza, Ramon era proprio un duro, ma anche un bonaccione». «A me faceva abbastanza paura Ciocio, la borsa gliela portavo volentieri...». «Ma tu lo sai perché me chiamavate Ciocio?». «Oddio, no. Perché eri un buono?». «Macchè, colpa di un mio compagno nella Fiorentina, uno di Pordenone, dai metodi un po' spicci. Quando mi chiese da dove venivo, gli risposi "Allumiere", vicino Roma. "Ah, allora sei ciociaro". E io: "Macché ciociaro, da me alla Ciociaria ci stanno 200 chilometri". E lui: "No no, sei ciociaro". E così prese a chiamarmi prima Ciociaro e poi Ciocio, per semplicità». «Ah ah ah, non lo sapevo». «A me come me chiamavano non me fregava niente. Giocavo a pallone, era il mio sogno. Dopo aver fatto il calzolaio e scaricato per mesi carichi di legname giocare era una gioia pura». «Ciocio, ma ti ricordi che razza di capitano era Agostino?». «Meraviglioso, che bella persona». «Io mi ricordo che per dimostrare affetto dava dei pizzichi sulle braccia. Me ritrovavo certi lividi... E poi faceva lui le trattative con Viola. Ogni tanto ci diceva: "Ho dovuto concedere qualcosa, ma vedrete che ce la riprenderemo". Ci sentivamo tutti sempre tutelati». «E il Barone? Che mito. È stato lui a volermi alla Roma, ce l'avevo avuto alla Fiorentina. Gli serviva un vice leale, mi preferì a Memo del Foggia. E sono stati quattro anni bellissimi». Con una sola partita giocata, nel giorno dei festeggiamenti dello scudetto con il Torino: «Franco (Tancredi, ndr) non ne voleva sapere di uscire. All'inizio del secondo tempo mi sono alzato dalla panchina e ho detto a Liedholm: "Mister, io entro eh"». «E lui immagino che ti abbia risposto: "Ma scerto Franco. Te lo stavo per chiedere". Ahahahahah». «Esatto. In allenamento mi sfondava. Quando mi diceva che mi tirava all'incrocio io ogni volta pensavo di poterci arrivare e invece prendeva sempre il sette».
Agostino Di Bartolomei con Chierico, Pruzzo e (seminascosto) Superchi @Archivio AS Roma
«E ti ricordi quella volta che s'è strappato? Ha sentito il dolore, si è toccato un attimo, poi però ha voluto rassicurarci: "non è niente, continuo a tirare, tranquilli". E giù altre botte imparabili. Alla fine s'è fatto guardare: aveva uno strappo al muscolo». «Sì, un fenomeno. Una volta non c'erano gli allenatori dei portieri. Io avevo Tessari che a volte mi allenava, ma quasi sempre era Liedholm con i suoi tiri. Oppure con le partitelle». «Ricordo quell'altra volta in cui il Barone ci raccontò di quando a San Siro giocò una partita con un infortunio alla caviglia. Non poteva calciare, ma disse ai suoi compagni di non farci caso: "Ji dissi di non preoccuparsi, io sempliscemente non potevo casciare. Fesci cinquanta minuti di corsa continua, coi movimenti mi portavo via due difensori e liberavo gli altri pe' fare gol...". Ahahahha, cinquanta minuti di corsa continua, un mito...». «E in allenamento facevamo sempre partitelle». «Ricordo che per allenare noi difensori ci faceva stare sempre in inferiorità numerica: 4 contro 6, contro 8, contro 10, dovevamo cercare sempre di non prendere gol, erano grandi allenamenti». «E poi Agostino tirava certe botte...». «Ma non aveva una particolare muscolatura. Era tutta coordinazione. Il suo segreto è stato quello. Guarda le foto mentre calcia: è perfettamente coordinato». «Però, Uba'... Le formazioni in qualche modo erano influenzate dal mago...». «Sì, me lo ricordo. E guai a farlo arrabbiare». «Una volta lo vidi prendere per la maglietta Turone, lo alzò di peso». «Quello non lo ricordavo. Con Ramòn ci voleva un bel coraggio. Io però davanti agli occhi miei ricordo che prese Brunetto al collo, sotto la doccia: Bruno era un istintivo, forse aveva fatto un gesto che non gli era piaciuto. Però pure tu eri uno che si arrabbiava spesso». «Ma dai, non me lo ricordo». «Sì, quando non vuoi raccontare non ti ricordi... Nelle amichevoli e nelle partitelle quando giocavi ti infuriavi se prendevamo gol». «E certo, magari in amichevole entravo sul 3-0 e voi cominciavate a giochicchiare. Io se prendevo gol mi arrabbiavo sempre».
Dagli antipasti passiamo alla carne, sembra di essere tornati indietro a quei giorni fantastici, all'epopea di una Roma irripetibile. Introduciamo il tema Dino Viola, il presidente gentiluomo di una società che fece inorgoglire ogni tifoso: «Quando arrivai a Trigoria chiamato da Liedholm mi guardò perplesso. Superchi, ma lei ha già i capelli bianchi? Non le daranno del vecchio, poi? Io ero imbarazzato, non sapevo che dirgli. Ma gli promisi che avrei sistemato la cosa. Così comprai una lozione che riportava i capelli al loro colore naturale, Grecian si chiamava. E risolsi... Tu invece c'avevi ‘sti boccoli neri». «Sì, ma pensa che a me i capelli cambiano col tempo. Da ragazzino ce l'avevo crespi, non ricci. Poi mi sono cresciuti, si sono ammorbiditi e mi sono venuti quei boccoli. Poi sono ritornati crespi, adesso sono più lisci. Tu invece ce l'avevi così a 40 e ce li hai uguali adesso... Ti ricordi come ci salutava Viola?». «Col gomito». «Esatto, col gomito. Come si usa adesso ai tempi del Covid. Lui salutava così. Una volta Michele Nappi mi disse, se si avvicina e mi saluta così gli do un pizzico. E lo fece sussultare. Pure Michele era un tipo tosto».
Ubaldo Righetti e Franco Superchi nella stagione 1983-1984
«E poi c'avevamo Fabbri a vigilare su di noi». «Che persona Fernando. Quando eravamo in ritiro e Viola non c'era lo chiamava ogni sera. E gli chiedeva conto delle cose che aveva saputo. Tipo di quel giocatore che era uscito, quell'altro che aveva litigato, o quello che era stato maleducato con qualcuno. E Fernando: "Presidente, ma che dice? Io c'ero, ho visto tutto, le hanno raccontato male. Non è successo niente di tutto questo. E se non mi crede, presidente, io sono anche disposto a farmi da parte". Poi magari veniva da noi e ci cazziava, ma era sempre dalla nostra parte». «Dai, eravamo un gran gruppo. E avevamo dei leader che tutti ascoltavano». «Sì, ricordo certe riunioni. A parlare erano quasi sempre Di Bartolomei o Falcao. E noi quando parlava Agostino guardavamo Paulo per capire che atteggiamento tenere, e viceversa. Alla fine eravamo sempre tutti d'accordo».
Non era certo epoca da procuratori, allora. Anche le trattative sull'ingaggio le facevano da soli: «Io una volta andai con mio suocero. Ma solo per darmi un contegno, lui aveva un'attività imprenditoriale e pensavo potesse aiutarmi». «E a che è servito?». «A niente, ahahahah: siamo entrati a casa del presidente Viola, dopo cinque minuti siamo usciti con il contratto già fatto, il tempo della firma». «Io pure qualche fregatura l'ho presa: ma chissenefrega, mi piaceva troppo giocare a pallone. Una passione che non ho mai perso». «Ma ancora vai sul campo?». «Certo, anche ieri. Di questi tempi solo allenamenti distanziati, ma i ragazzi faticano a prendere i miei tiri». «Come faceva Liedholm».
Arrivano i caffè, al tavolo si uniscono anche il presidente del Tolfa, Alessio Vannicola, e il bomber del Tolfa, che di nome si chiama Federico e di cognome Superchi, è la terza generazione della famiglia, un centravanti infallibile: «Nonno mi racconta sempre di Boninsegna». «Grande attaccante, Bonimba. Un giorno m'ha fregato però. Mi conosceva come portiere, gli avevo già parato due rigori. E quando mi tirò il terzo io pensai che avrebbe cambiato modo di calciare e lui pensò che io l'avrei pensato. Così non cambiò e mi fregò. Io gli attaccanti me li studiavo sempre in televisione. E spesso li fregavo». Ma la sera di Roma-Liverpool non era in panchina: «Quell'anno ero il terzo portiere, ero in tribuna. Quando finì tutto scappai di corsa, tornai qui ad Allumiere». Righetti abbassa lo sguardo. A distanza di 36 anni fa ancora male. Entra nella carne anche oggi. L'unico argomento di tutta la giornata su cui nessuno ha voglia di scherzare.
La foto di gruppo ad Allumiere: da sinistra Giampaolo Superchi, il presidente del Tolfa Vannicola, Federico Superchi, il vostro cronista, Ubaldo Righetti e Franco Superchi
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