Attacco, la carica dei cento
Dzeko, Micki e Pedro sono le chiocce di una squadra giovane: insieme fanno un secolo. Numeri, classe e titoli le garanzie in dote alla Roma
Trentaquattro e mezzo, trentatré e un pezzetto, quasi trentadue. Il totale fa cento o poco meno, che altro non è che la somma delle rispettive età di Dzeko, Pedro e Mkhitaryan.
Ovvero dell'attuale attacco della Roma, in attesa del ritorno in squadra di Zaniolo, del vice-centravanti che dovrebbe arrivare dal mercato e delle auspicabili crescite di Kluivert e Perez. Tutti giovanissimi in seconda linea, ma davanti ci sono loro tre. Per il momento inamovibili. Querce secolari a dare sostanza al verde seminato dalla nuova Roma. Un colore che rappresenta perfettamente il gruppo costruito: bello da vedere, forte, ma giovane e futuribile. Nel quale s'innesta l'esperienza e la classe delle tre chiocce del reparto offensivo.
Mostri sacri, bomber, simboli anche extra-calcistici, uomini-squadra, dotati di curriculum lunghi come papiri, di numeri tali da far impallidire chiunque e da far sperare i romanisti che le sequenze si allunghino. Tanto per avere un'idea più esaustiva sulle cifre del trio: insieme fra nazionali e club hanno collezionato oltre duemila presenze ufficiali, realizzato settecentoventitré reti, fornito trecentotrenta assist, disputato trecentododici gare nei tornei internazionali, vinto cinquanta titoli. I numeri saranno pure aridi, ma sintetizzano perfettamente l'enormità delle carriere prese in esame e le potenzialità che ancora possono esprimere. Come si è appena intravisto nella prima partita disputata dai tre in contemporanea, per di più contro un avversario probante come la Juventus. E come certifica anche il resto del campionato, nel quale tutte o quasi le squadre di vertice si affidano ai propri "vecchietti" terribili. Peraltro quelli nella rosa della Roma mai come questa volta appaiono complementari fra loro.
L'ultimo arrivato è Pedro, l'uomo delle finali, capace di essere decisivo in tutte quelle giocate, con la maglia del Barcellona o del Chelsea fa poca differenza, perché quando la classe è purissima si palesa ovunque. Lo sa bene il canario, catalano d'adozione, cresciuto fra le palme di Tenerife prima di conquistare Guardiola, mica uno qualunque, che dalla Masia lo porta in prima squadra e lo fa esordire nel team più forte di ogni epoca. Lui esegue ogni compito da soldato calcistico e in breve rende Eto'o e Henry, altro che due qualsiasi, lussi da poter mandare altrove. Fino a salire sul tetto del mondo, prima in blaugrana, poi in nazionale col blocco Barça pur privo di Messi. In maglia blue mette d'accordo filosofie lontane anni luce: Mourinho e Hiddink, Sarri e Conte. Tutti lo considerano fondamentale, lui ricambia mettendo firme decisive sugli altri titoli di cui fa incetta a Londra: Premier, Fa Cup, poi Europa League, tanto per centrare l'en plein anche in campo continentale. La fame di titoli è il suo marchio di fabbrica, confermato anche dalla presentazione a Trigoria della scorsa settimana: «L'obiettivo non può essere il quarto posto, ma vincere, partita dopo partita».
Se Pedro è l'archetipo del combattente di rango che si fa scudiero per il bene comune, Mkhitaryan è semplicemente - si fa per dire - il simbolo di un popolo martoriato. Ben al di là delle sue gesta sportive. Recentissimi i suoi interventi social sulla questione armena nella regione del Nagorno Karabakh. Ma non certo inediti. Nel 2011 Micki porta doni ai familiari dei soldati caduti nella guerra contro l'Azerbaigian e viene insignito del titolo di "Difensore della patria". Dal lato opposto della barricata non gli perdonano l'impegno civile e in più di un'occasione la geopolitica s'impone sul calcio, impedendogli di giocare a Baku, prima col Borussia, poi con l'Arsenal. Il suo infinito talento però lo mette in mostra in ogni altro angolo del mondo, finendo perfino in Brasile a 13 anni, quando si convince che per seguire le orme del papà giocatore scomparso nel 1996 deve affinare la tecnica lì dove è in cima alla scala gerarchica delle qualità: quei mesi al San Paolo lo forgiano, l'esordio in patria giovanissimo lo lancia, il lungo cammino attraverso l'Europa (Ucraina, Germania, Inghilterra, prima di Roma) lo arricchisce ulteriormente. Henrikh oggi parla sette lingue e Fonseca stravede per la sua intelligenza.
Non solo calcistica. Anche perché nella Roma pochi riescono a incidere come lui, che in 29 partite riesce a procurare 16 reti (fra gol segnati e assist forniti): in media più di mezzo a partita. Il vertice del trio, in senso metaforico e fisico, continua a essere Dzeko. Per la terza volta "riacquistato" dopo essere stato a un passo dall'addio: nelle prime due occasioni la permanenza ha coinciso con una drastica impennata di cifre già straordinarie, per la terza non resta che attendere. Ma nel gigante cresciuto sotto le bombe di Sarajevo convivono due aspetti che sono garanzie: professionalità e passione. Campione bicefalo che segna gol a raffica, ma non vive con quell'ossessione e cerca i compagni più spesso della gloria personale. Lo slogan bosniaco che sfoggia su qualche maglietta, «Za moje mahalce», è un inno al senso di comunità: «per i miei vicini». Anche per questo nel suo Paese è un eroe, oltre che il simbolo della nazionale trascinata per la prima volta ai Mondiali. Perché Edin è l'uomo delle imprese leggendarie: titolo col Wolfsburg che non lo aveva mai conquistato, poi col City che non lo vinceva da oltre 40 anni. Gli manca ancora il sigillo storico in Italia, non certo essere uno dei tanti in bianco e nero.
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