Sacchi a Il Romanista: "Seconde squadre? Era ora, ma siamo in ritardo"
"In Spagna c’erano già 20 anni fa. Decisioni più veloci con la Federazione commissariata. Il calcio italiano propositivo è quello di Roma e Napoli"
«Lei ha mai costruito una casa?». Attacca così Arrigo Sacchi, quando gli chiediamo cosa ne pensa delle seconde squadre. Tema che conosce molto bene, perché il profeta di Fusignano, dopo aver rivoluzionato il calcio Italiano con il Milan nella seconda metà degli Anni 80, e aver sfiorato il Mondiale con l'Italia a Usa '94, è stato per quattro anni coordinatore delle Nazionali giovanili azzurre, dal 2010 al 2014. E dell'importanza di introdurre anche in Italia le seconde squadre, filiali dei grandi club iscritte in serie C o in B, si parlava parecchio già da allora. Ma i tempi non erano ancora maturi, forse.
«Lei ha mai costruito una casa? Va bene anche un appartamento...»
Veramente no...
«Immagini di doverla costruire. Di affidarsi all'impresa migliore sul mercato, il miglior gruppo di muratori che trova, senza badare a spese. Poi che farebbe, si affiderebbe, per le rifiniture, a dei principianti? Ai primi venuti?»
Come a dire che lei non era favorevole ai prestiti in serie C dei giovani calciatori.
«Per me, dopo che un club ha lavorato per anni su un giovane calciatore, magari prendendolo a 7-8 anni, facendolo lavorare con istruttori qualificati, metodologie e strutture di un certo tipo, è giusto che continui fino alla fine, senza affidarsi ad altri nel momento decisivo della crescita».
Se ne parla da anni, del resto.
«Lo dico spesso, noi siamo un paese arretrato, che non ha cultura sportiva, calcisticamente indietro di 30-40 anni. Commentiamo solo il risultato, mai la prestazione, basta un gol per passare da genio ad asino. Nel 1998 lavoravo all'Atletico Madrid, e la seconda squadra già c'era, era un cosa normalissima in Spagna. Non potevano arrivare in Serie A, ci capitò di vincere il campionato con la seconda squadra, senza poter salire. Ma non era quello l'obiettivo, era di avere una continuità di lavoro del settore giovanile. In un ambiente che si ritiene che sia più organizzato di un club di serie C. Dove, come sempre in Italia, conta solo il risultato».
Le piace come è strutturata questa riforma?
«Molti parlano senza sapere le cose. Per anni i club che volevano le seconde squadre, le volevano perché avevano 50-60 tesserati. Le volevano perché volevano fare commercio di calciatori. E così non avrebbe avuto nessun senso. Mentre invece in questa riforma sono stati fissati dei limiti di età. E così va bene, così sarà utile».
Cosa altro sarebbe utile?
«Allodi che è stato un grande dirigente, si accorse che la Francia stava facendo una rivoluzione, nel calcio. Nel 1970 inventarono i centri di formazione, in cui abbinavano scuola e calcio, 4 ore dell'uno, e 4 ore dell'altro, dal lunedì al venerdì. E il sabato giocavano. Il sistema funzionò, e Allodi obbligò tutti i club a dotarsi di un centro di formazione, con dei responsabili che dovevano fare continuamente dei corsi di aggiornamento. Bisogna dare un'idea di gioco, sin dai piccolini: il sistema di gioco migliore è quello che viene interiorizzato, e consente delle risposte naturali, spontanee. Per questo non capisco quegli allenatori che cambiano continuamente sistema di gioco. Le squadre che hanno fatto la storia del calcio avevano poca tattica, e molta strategia. E le squadre B possono essere un modo per avere più tempo per inculcare i giusti concetti nei giocatori».
Le sarebbe piaciuta una riforma del genere, quando lei era responsabile di tutte le nazionali giovanili?
«Dopo molti anni, in quel periodo, siamo riusciti a portare il campionato Primavera agli stessi limiti d'età degli altri campionati giovanili dei principali campionati d'Europa. Per riuscirci, abbiamo dovuto abbassare il limite, evitando che in Primavera continuassero a giocare 20enni o 21enni. Ma è chiaro che se la Primavera ora finisce a 19 anni, bisogna mettere qualcosa dopo. Perché per la nostra mentalità sempre paurosa, il nuovo ci spaventa terribilmente. Per noi quelli di 23-24 anni sono ancora giovani, nel resto d'Europa non è così. Da noi si rischia di esordire in serie A a 22 anni: con questa mentalità, serviva un passo intermedio tra Primavera e prima squadra».
Perché non si è fatta prima questa riforma?
«Ci sono sempre state delle resistenze. Ma è il vantaggio principale di avere un commissariamento in Federcalcio: certe decisioni si possono prendere più velocemente. Anche in un paese che non ha coraggio come il nostro».
Il commissario ha anche scelto il nuovo ct della Nazionale.
«Roberto Mancini ha una buona storia alle spalle, anzi ottima, sia da calciatore che da allenatore. Ha sempre fatto bene, e gli auguro ovviamente di continuare a raccogliere successi».
Ma qual è lo stato attuale del calcio italiano?
«L'ho già scritto qualche giorno fa, nel punto che faccio sulla Gazzetta dello Sport: per me quello appena assegnato è stato uno dei campionati più belli degli ultimi anni. Ci alcune squadre che hanno fatto molto bene, come l'Atalanta, la Lazio, e la Sampdoria, ma occhio anche al Benevento. E poi ci sono le incerte, come Fiorentina, Inter e Milan, che delle cose buone le hanno fatto vedere non sempre, ma solo a sprazzi. E su tutte Roma e Napoli, che hanno fatto vedere un bel calcio, propositivo, come piace a me».
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