AS Roma

La Roma che brucia

Da Marchini a Petrachi, quando le storie si ripetono. Mai schiavi del risultato, ma di interessi personali o politici: è un alibi per la squadra?

PUBBLICATO DA Daniele Lo Monaco
14 Febbraio 2020 - 11:36

L'ultima vittima del famigerato "ambiente romano" rischia di essere Gianluca Petrachi. Il primo fu forse Alvaro Marchini, indimenticato presidente romanista che in seguito alle polemiche cavalcate dalla stampa capitolina, Il Messaggero su tutti, in riferimento alla mai digerita cessione alla Juventus di Spinosi, Capello e Landini, si convinse a lasciare la Roma ad Anzalone.

Era l'alba degli Anni 70. Oggi, 50 anni dopo, il tema è sempre lo stesso: Roma vive di passioni viscerali, ma quanto queste passioni poi per contrasto alimentano la combustione che finisce invariabilmente per bruciare chi indossa, a qualsiasi livello, quella divisa? C'è chi ne è convinto: «A Roma non si vince niente per colpa dell'ambiente». C'è chi sostiene il contrario: «Le pressioni stanno ovunque: se non si vince è perché i dirigenti non sanno fare il loro mestiere».

La verità, come sempre, la troverete più o meno a metà percorso: non sempre da queste parti presidenti, dirigenti e allenatori hanno lavorato in maniera impeccabile, ma è certo che vivere dentro questo luna park sempre acceso che ti spara in cielo quando sali di un gradino e ti ricaccia nella galleria degli orrori quando perdi due partite non aiuta a mantenere l'equilibrio.

Spesso, anzi, i signori dell'incubo pretendono udienza anche quando le cose vanno bene, consapevoli che prima o poi c'è un conto da poter presentare. Alla fine il problema è uno: se affianchi Batistuta a Totti è più facile vincere, se punti su Gonalons e Ucan fai più fatica. Ma nei momenti migliori, come in quelli peggiori, ci sarebbe bisogno di serenità per continuare su quella strada o per cambiarla con decisione: potendo puntare tutto solo sulle idee. E invece nel percorso di ogni stagione arriva sempre quel momento in cui le energie vengono destinate soprattutto all'erezione del fortino dentro cui nascondersi o almeno ripararsi per un po', anche solo per tenere con i piedi per terra quel giocatore o quel dirigente che ha provato l'ebbrezza della gloria.

Perché poi la storia dice pure che chi comincia a alzare le barricate presto o tardi lì dentro ci resterà sepolto. E avanti un altro. Chi scrive per un po' ha cullato il sogno di contribuire a realizzare una pacificazione che consentisse a una inedita struttura dirigenziale nel 2011 di lavorare con serenità il tempo necessario per costruire le basi di un nuovo ciclo vincente.

Ci sarebbe stato tutto per farlo: società capiente e priva di scheletri nell'armadio e cambiali politiche, dirigenti di primo livello, un allenatore con il dna vincente, una squadra giovane con basi comunque già solide. La piazza concesse fiducia accompagnando con affetto il percorso nonostante qualche inevitabile difficoltà iniziale. Lo striscione "Mai schiavi del risultato" fu una delle più belle manifestazione di concordanza filosofica che la storia del tifo ricordi, schiavi come culturalmente siamo in Italia proprio del concetto opposto.

Eppure neanche questo bastò: perché sin dal primo anno "l'ambiente" maldigerì la proposta americana, disperdendosi dentro i mille rivoli discesi dalle politiche editoriali divisive di testate giornalistiche, televisive o radiofoniche smarrite dalla mancanza di punti di riferimento, da vecchi ras di quartiere all'improvviso senza coperture, da presuntuosi tromboni incapaci di cogliere l'essenza di una proposta comunque innovativa, da circoli politici affamati di nuovi tavoli da spolpare.

Per non parlare delle piccole miserie personali che anche il vostro povero cronista si ritrovò a un certo punto a dover fronteggiare, nelle cento sottoguerre che si incendiano ogni giorno a Trigoria. «Una vittoria aggiusterà tutto», si diceva nelle riunioni in quel 2011, «una vittoria aggiusterà tutto» si dice oggi mentre la Roma è in partenza per Bergamo. E se con l'Atalanta perdi? Nel frattempo sono invecchiati tutti, pure le ragnatele della bacheca, rimasta intonsa negli ultimi nove anni.

"Chi tocca la A.S. Roma muore!", c'era scritto in un cartello diventato famoso grazie a una foto in cui Piedone Manfredini lo accarezzava quasi. Era un monito per i nemici, sembra diventato l'incubo per gli amici. Ci si invecchia davvero, lì dentro. In una pausa della cena organizzata per provare a far recedere Luis Enrique dal suo proposito di dimettersi, la moglie Elena, senza farsi sentire dal marito, pregò i dirigenti: «Non insistete, non vedete come si è ridotto?».

Baldini dopo l'esperienza romana è diventato un desaparecido: non rilascia interviste dal 2013, passa quattro mesi l'anno in Sudafrica, di ruoli dirigenziali nel calcio non vuole più saperne. Sabatini si è congedato nel 2016 con rammarico: «La squadra è forte, Spalletti è un fenomeno: spero possa restare cinque anni e vincere quello che la Roma merita». Ce ne sono stati altri tre di allenatori, ora è in discussione pure l'ultimo.

Anche ds se ne sono alternati parecchi: del centro, del nord e del sud, romani e stranieri, con legami solidi o fuori da ogni circolo, silenti e logorroici, abituati a coltivare rapporti con i giornalisti o decisi ad ignorarli, che amano la vetrina o asociali, muscolari o intellettuali, nessuno in ogni caso finora ha lasciato il segno e ognuno se n'è andato con la patente dell'incapace.

E mentre è già scattato il totosostituzione di Petrachi (Paratici uno dei nomi già ricorrenti, qualora davvero si consumasse il divorzio con il leccese), ci si chiede quali idee apporterà Friedkin, il "sostituto" di Pallotta che si è arreso dopo aver rinunciato anche solo a godersi la bellezza della città. Era stufo di sentirsi insultato, hanno scritto che lo faceva per non essere arrestato.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

CONSIGLIATI