Righetti si racconta: «La mia Roma di uomini veri. Falcao sapeva prevedere le partite»
L'ex difensore ricorda la sua carriera in giallorosso: «Eriksson mi faceva fare gli allenamenti di karate». E poi Di Bartolomei, Conti, Pruzzo, Cerezo, Liedholm...
Trentasei anni fa, Ubaldo Righetti. Oggi del 1982. Cagliari. La Roma sta vincendo in trasferta 4-2, doppiette di Pruzzo e Falcao. Nils Liedholm sulla panchina giallorossa indica un ragazzo che deve ancora compiere diciannove anni, è cresciuto nel settore giovanile, ne parlano tutti come di un talento. «Tocca a te, Ubaldo» gli fa il Barone con la sua inconfondibiole calata. Ubaldo che di cognome fa Righetti si alza, si prepara, il cuore gli batte forte e a tre minuti dal novantesimo va in campo. La prima volta in serie A. La prima volta che non si scorda mai. La prima volta di una storia che poi avrebbe portato uno scudetto, due coppe Italia, una finale di Coppa dei Campioni con lui, Ubaldo, giovanissimo, capace di presentarsi sul dischetto dei rigori finali e fatali e buttarla dentro, centodue presenze con la Roma, un gol all'Ascoli. Altri tempi, altro calcio. Oggi Ubaldo è un apprezzatissimo opinionista radiofonico sulle frequenze di Teleradiostereo. Oggi, trentasei anni fa, era un giovane che aveva un sogno. L'ha realizzato.
Ubaldo come te la ricordi quella prima volta?
«Come un'emozione indimenticabile. Che ho vissuto per oltre dodici ore».
Che vuoi dire?
«Che la sera prima un signore che portava la maglia numero cinque, mi aveva detto che il giorno dopo sarei andato in campo. Sognai una maglia da titolare, invece furono solo tre minuti, comunque indimenticabili».
Fu Falcao quindi a dirti che avresti esordito?
«A quei tempi ero un po' il cocco di Paulo. Ero il più giovane della squadra, mi seguiva con l'occhio di chi se ne intende. La sera prima delle partite mi invitava sempre in camera sua. Mi parlava di tutto. E mi spiegava come sarebbe andata la partita. Non si sbagliava mai. Un fenomeno».
La maglia della prima volta che fine ha fatto?
«La regalai a mia madre. Io, peraltro, non sono mai stato uno che conservava i ricordi. Ho sempre preferito guardare avanti piuttosto che soffermarmi su quello che avevo fatto»
Quella era una grande Roma
«Grandissima. Composta sì da campioni, ma soprattutto da uomini veri».
Il capitano era Agostino Di Bartolomei
«Come l'ho conosciuto, ho capito che lui era il grande capo. E poi posso ricordare un episodio?».
Siamo qui per questo
«Quando cominciai ad allenarmi con la prima squadra, si andava al Tre Fontane. E venivano tantissimi tifosi a vederci. Noi cominciavamo a fare i giri di campo, Agostino mi veniva sempre vicino e mi diceva "guardali, guardali bene, devi sempre rispettare loro e la maglia". Che Capitano».
In panchina c'era un signore chiamato Nils Liedholm
«Un maestro di calcio e di vita. Aveva un carisma fantastico. Noi non vedevamo l'ora di allenarci. Arrivavamo due ore prima e ci sfidavamo a calcio-tennis con tanto di ostacoli. Il Barone ci vedeva e gli si illuminavano gli occhi. Capiva che in quel modo allenavamo la nostra competitività, nessuno voleva perdere».
Dopo lo scudetto arrivò pure Cerezo
«Persona meravigliosa e giocatore come ce ne sono stati pochi. Mi voleva bene. Mi chiamava il brasiliano bianco e io ne ero orgoglioso».
Con Bruno Conti il rapporto come era?
«Per me era come un fratello maggiore. Con lui si scherzava sempre, ma quando c'erano da fare le cose sul serio, si facevano sul serio».
Di Pruzzo che ricordo hai?
«È stato il più grande rompiscatole (Ubaldo usa un'espressione più efficace ndr) che abbia mai conosciuto, ma lo dico come un complimento».
Pure quando vincevate?
«Pure. Ci diceva sempre che avevamo giocato male. Era anche, però, una persona con una grande sensibilità. Quando cominciai a frequentare la prima squadra, toccava a me marcarlo nelle partitelle. E qualche calcetto ci scappava. E lui, ma questo chi ce l'ha mandato?».
Oltre alle qualità dei calciatori, cosa aveva in più quella magnifica Roma degli anni ottanta?
«Ci volevamo bene. Eravamo un gruppo unito nel senso più pieno della parola. C'erano uomini giusti. In campo ci si aiutava. Se io mi spingevo in avanti, Falcao tornava indietro a occupare il mio posto. C'era il coinvolgimento totale di tutti».
E poi c'era un presidente come Dino Viola
«Un grande, un autentico numero uno. Lui sapeva tutto di tutti. Una persona splendida e un presidente fantastico».
Tornassi indietro cosa cambieresti della tua carriera?
«Non adrei in campo da infortunato. Come feci con Eriksson».
Con Sven il rapporto non fu lo stesso che con Liedholm
«Ma quando mai. Non ci fu mai feeling tra noi due. Ti parlava, ti diceva delle cose e poi faceva altre scelte. Mi diceva che dovevo essere cattivo in campo. Mi fece fare anche allenamenti di karate per acquisire maggiore determinazione. Il Barone si sarebbe messo a ridere se glielo avessi raccontato».
Pure noi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA