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Roma, la benedizione di fine ottobre

L'arcivescovo Fisichella è stato a Trigoria per benedire il centro sportivo. Dal sacro al profano, la storia giallorossa è ricca di scaramanzie e “riti” superstiziosi

PUBBLICATO DA Lorenzo Latini
05 Novembre 2019 - 07:45

Una visita al "Fulvio Bernardini" per una benedizione di rito: l'arcivescovo Rino Fisichella, come svelato ieri mattina da Tele Radio Stereo, è stato a Trigoria per benedire il centro sportivo giallorosso. Il 25 ottobre. Una visita peraltro concordata da mesi, per la precisione dal 22 febbraio scorso, quando il Monsignore aveva presieduto all'inaugurazione della nuova sede della Roma in viale Tolstoj, all'Eur.

Nessuna "riconsacrazione" della cappella: è sconsacrata da anni (già dai tempi della scorsa proprietà) e continua ad avere funzione di magazzino. La benedizione di un luogo (ufficio, scuola o casa che sia) è radicata nella tradizione cattolica e in tal senso va interpretata la presenza di Monsignor Fisichella a Trigoria dieci giorni fa.

Il caso ha voluto però che i ragazzi di Fonseca inanellassero tre vittorie consecutive da quel momento in poi, scatenando una sfilza di ipotesi tra il sacro e il profano, a prescindere da qualsiasi fede religiosa. Certo è evidente che i giallorossi abbiano esorcizzato da soli le loro recenti difficoltà e i loro problemi: la bontà del lavoro di Fonseca e della squadra è evidente. Ma la curiosa concomitanza di eventi si è, giocoforza, notata. Fede giallorossa, fede e basta o chissà cos'altro di sicuro la storia del calcio è piena di episodi "curiosi", scaramantici, e in bilico fra sacro e profano.

Dall'anti-Mago al Barone

La storia giallorossa (e calcistica in generale) è ricca di personaggi scaramantici, le cui gesta sportive sono andate di pari passo con rituali superstiziosi et similia. Lo stesso Oronzo Canà, interpretato da Lino Banfi (a proposito di romanisti) nel film "L'allenatore nel pallone", era un omaggio dichiarato all'anti-Mago Oronzo Pugliese, con venature che richiamavano il Barone Nils Liedholm, presente nella pellicola con un cameo. Pugliese era solito portare con sé in panchina una gallina portafortuna e in più di una circostanza fece gettare del sale sul terreno di gioco. Ma la neve, ovviamente, non c'entrava. Il soprannome di "anti-Mago" lo ottenne per l'accesa e lealissima rivalità con Helenio Herrera, all'epoca alla guida della Grande Inter: anche l'argentino, in quanto a superstizione, non era da meno rispetto al collega di Turi.

Nils Liedholm, il più grande allenatore della nostra storia, era noto per la sua scaramanzia: la grande amicizia con il mago Mario Maggi risale ai tempi della militanza milanista dello svedese, ma proseguì anche quando il tecnico si trasferì a Roma. E se portare la squadra rossonera a Busto Arsizio era un conto, farlo dalla Capitale costringeva Pruzzo e compagni a dei veri e propri tour de force, a volte anche a ridosso di partite casalinghe. Alla morte di Liedholm, Maggi racconterà di averlo ammonito di non far calciare i rigori contro il Liverpool a Conti e Graziani, ma ci tenne a precisare: «Tutte le sue vittorie sono merito suo, questo deve essere chiaro».

Al di là delle vicende giallorosse, c'è stato anche chi - come Giovanni Trapattoni e Carlo Ancelotti ai tempi del Milan - ha cercato invece aiuto proprio nella religione: il "Trap", Ct azzurro durante i Mondiali del 2002, portava con sé in panca una boccetta di acqua santa, che però nulla ha potuto contro le scelte scellerate di Byron Moreno; Carletto, invece, fu pescato con un rosario tra le dita durante una sfida con la Reggina.

Nella Francia campione del mondo del 1998 il rituale era fra Blanc e Barthez: il difensore, prima di ogni partita del torneo, baciava la pelata del portiere. L'ex portiere scozzese Alan Rough ha raccontato che il suo rituale consisteva nel non radersi prima di ogni partita e, una volta negli spogliatoi, nell'appendere i vestiti al gancio numero 13. Numero che invece non piaceva affatto al "Colonnello" Valeri Lobanovskyi, tecnico dell'Urss e della Dinamo Kiev: nessuno dei suoi doveva indossare quella maglia. Perché, come diceva Peppino De Filippo: «Non è vero... ma ci credo».

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