AS Roma

Il sabato del villaggio

Roma-Verona vissuta in tribuna Tevere: dal ricordo del giovedì di coppa ai tornelli, fino alla freddezza di Shomurodov. Soulé fa giocate alla Dybala e Ranieri sa prevedere il futuro

(GETTY IMAGES)

PUBBLICATO DA Federico Vecchio
22 Aprile 2025 - 07:30

Non avevo dubbi. Non faccio in tempo a mettermi in fila ai tornelli che sento subito parlare della partita di Europa League di giovedì sera. Solo che, incredibilmente, non si parlava di quella partita, di quella meravigliosa partita, fatta di supplementari, di rigori, di colpi di scena, ma di un’altra. E qui, per cercare di spiegarmi meglio, devo aprire una parantesi e fare un passo indietro, prima di tornare, prometto, tra poche righe, a rendere conto di quanto accaduto ai tornelli.
Dobbiamo tornare, per l’esattezza, intorno alla mezzanotte di giovedì. Erano appena terminate le partite di Europa League ed io me ne stavo comodamente sdraiato sul divano sorseggiando una tisana (perché le emozioni della serata erano state davvero forti, diciamolo) ascoltando, in sottofondo, la splendida voce di Rebekka Bakken, una meravigliosa cantante norvegese qui da noi colpevolmente ancora troppo poca conosciuta e troppo poco apprezzata. Avvertivo però l’urgenza, in quel preciso momento, di condividere ciò che era stato con un grandissimo romanista che, con nome di fantasia, chiamerò “Umberto Scialpi detto Umbo”.

Telefonavo, quindi, ad Umbo pronto ad attaccare, vista l’ora, se, dopo il terzo squillo, non avesse risposto. Ma Umbo rispondeva subito con un «e chi dorme stanotte» facendomi subito comprendere che anche lui aveva visto e vissuto, come me, quel sali e scendi di emozioni. Ed allora entravamo subito nel dettaglio di quell’incontro, soprattutto parlando di quei supplementari e dei rigori. Perché, quando a dieci minuti dalla fine del secondo tempo supplementare sei in vantaggio di due reti, non puoi nemmeno immaginare di fare un fallo da rigore che avresti potuto evitare, di lasciare che il pallone attraversi la tua area senza che nessuno intervenga, di prenderne tre in quella manciata di secondi. Ma così è stato, ed il gol di Maguire al 121’ ha fatto cadere nel dramma non solo il Lione che, fino a lì, se l’era giocata benissimo, ma anche Fonseca. E, di questo, ci dicevamo entrambi dispiaciuti, continuando a parlare dei colpi di scena, di quanto sia forte Lacazette, di questo Mainoo che impressiona, e di Fonseca che avrebbe meritato, questa volta ancora di più, di non uscire per mano del Man United. Di questo, quindi, parlavamo, quando Umbo introduceva un altro tema, e cioè il dramma vissuto dai tifosi biancocelesti del City. Di quanto fosse stato terribile, per loro, stare lì, davanti alla televisione, per 121 minuti a gufare e poi, quando sembrava veramente fatta, trovarsi contro un destino perfido e terribile.

Ma poi Umbo, la cui competenza calcistica, e non solo, cammina di pari passo con un enorme saggezza, mi faceva notare che, molto probabilmente, questo non sarebbe dovuto essere accaduto, perché si può gufare, al massimo, per una semifinale o per una finale europea, ma non per un quarto di finale, quando sai che la strada per un’ipotetica vittoria del trofeo sarà ancora lunga. Ed allora concludeva che, probabilmente, l’idea di questa sconfitta in un quarto di finale potesse essere stata superata con facilità dai tifosi biancocelesti, perché sempre e solo di un semplice quarto di finale si trattava. Ma aggiungeva altro, e cioè che passare la vita a gufare la squadra avversaria è un terribile percorso esistenziale. Perché, sì, poi potrai essere ripagato dalla gioia di una sconfitta, in finale, dei tuoi rivali ai rigori, ma fino al momento di arrivare lì, a quell’ultimo rigore sbagliato o segnato che ti farà uscire dalla paura in cui ti sei rintanato per tutte le settimane ed i mesi precedenti, avrai conosciuto soltanto livore e tensione, che ti avranno consumato e che avrai condiviso, in un silenzio quasi carbonaro, soltanto con coloro che, come te, a mezza voce condividono lo stesso destino.

E, fatta questa lunga e necessaria premessa, Umbo concludeva ricordandomi l’ovvio, e cioè come a noi tifosi romanisti il destino abbia concesso la fortuna, almeno fino ad oggi, di non conoscere questo terribile stato d’animo, perché noi, di semifinali e finali europee di quegli altri, ne abbiamo vissute davvero poche, talmente tanto poche che ci sono generazioni di romanisti che non ne hanno proprio memoria. E che, comunque, nemmeno quest’anno le vivranno.
Quando, quindi, arrivato ai tornelli sentivo parlare della partita di quegli altri, restavo sorpreso. Perché non mi capacitavo di come, tra una partita tra il glorioso Man United ed i francesi del Lione, non esattamente gli ultimi arrivati, qualcuno potesse avere preferito guardare una partita tra due squadre che, a livello europeo, non hanno detto molto e di cui una, addirittura, da quello che è stato detto con forza (e da cui prendiamo le distanze, non conoscendo la verità del fatto, ma che riportiamo per necessità di un corretto resoconto) appena un paio di stagioni fa avrebbe schierato sette giocatori che, per sbarcare il lunario, si sarebbero guadagnati da vivere scaricando il salmone nel porto di Bodo (detti, perciò, “Salmonari”: Di Canio dixit).

Non facevo in tempo, quindi, a prendere posto ancora sorpreso dall’accaduto, che vedevo il Verona fare il Verona, come magistralmente aveva preannunciato Claudio nostro («L’aveva detto: questi in contropiede sò micidiali»); Matias fare Paulo («È sembrato Dybala!»); Eldor fare il centravanti («Questo è un gol che fanno le punte vere»). Da quel momento in poi la partita procedeva stancamente («È che la Roma è stanca, soprattutto de testa») e, tranne la solita apprensione finale, vincevamo comodamente di corto muso.

A quel punto abbandonavamo gli spalti soddisfatti di avere vinto ciò che occorreva vincere («Con le piccole le abbiamo tutte vinte: abbiamo fatto il nostro») ma disillusi sulle prossime («Temo che il nostro campionato sia ai titoli di coda: dalla prossima contro l’Inter è tutto troppo in salita»). Ma tornavamo a casa comunque soddisfatti. E quando rientravo, che oramai era mezzanotte passata, non mi restava da fare altro che preparami una buona tisana, stendermi sul divano e mettere su una canzone di Rebekka Bakken. Norvegese e troppo poca conosciuta. Troppo poco. Ma brava. Anzi, di più: bravissima.

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