AS Roma

«Non buttiamo tutto»

Tutta la tensione pre-partita poi le prime normali schermaglie in campo. La rabbia al gol di Romagnoli («Fermi immobili»), l’ansia («non si può perdere») e il pari finale

(GETTY IMAGES)

PUBBLICATO DA Federico Vecchio
15 Aprile 2025 - 07:00

È inutile starci a girare intorno: la partita contro la Juve ci ha mostrato quello che non avremmo voluto vedere («Me sa che semo arivati»). Quel pareggio ci ha premiati più di quanto meritassimo («C’ha detto bene») ma, e soprattutto, ci ha fatto vedere una squadra meno energica, con meno voglia, un po’ in affanno («Sarà, ma è come se avessimo tirato i remi in barca»). Era inevitabile, però, che accadesse. Dopo una rincorsa fatta di tre punti in tre punti, figlia di Claudio nostro e di un calendario amico, è evidente che si inizi a mostrare un po’ il fianco. Però non vogliamo crederci. Vogliamo credere, invece, con tutto noi stessi, che la partita contro la Juve sia stata un passo falso ma che, in questo Derby, si riprenda il discorso lì dove è stato interrotto. Perché vincerlo vorrebbe dire tante cose, tutte insieme: Claudio, Imperatore; il quarto posto laggiù, che finalmente lo vedi; una rosa che aumenterebbe di valore. E poi, che non è mai proprio privo di significato, passarli in classifica. Ma basta con le riflessioni. Basta. Perché si è fatta una certa ed occorre andare. Prendo, quindi, la sciarpa d’ordinanza. Esco di casa. Accendo il motorino. Sette e un quarto, minuto più, minuto meno, e sono a Piazza Mazzini.

 Per finalmente accingermi, in totale solitudine, a mangiarmi una pizza (bufala e pachino, buonissima: ve la consiglio). Occupo, quindi, insieme alla mia solitudine, un tavolino all’esterno del locale. Mentre mi arrivano pizza e birra li vedo, però, passare. E non riesco a fare pace con l’idea di entrare, tra poco, in un Olimpico in cui saranno maggioranza altri colori. Dovrei averci fatto l’abitudine, soprattutto perché di Derby ne ho visti a quintali. Invece, niente, non ci faccio pace. Mi alzo, quindi, da quel tavolino, senza rinunciare a chiudere la veloce cena con un ottimo creme caramel (vi consiglio anche quello) che già sono in fila ai tornelli. Mi arrivano, però, da quelli introno a me, suoni che portano con sé parole a me praticamente sconosciute (del tipo: “Gigot”, “Dele-Bashiru”, “Noslin”, “Belahyane”) a cui sento che quelle altre sciarpe attribuiscono qualità e speranze. E questo mi rincuora. Perché, anche se mi giro intorno, e vedo, qui e lì, sciarpe con i colori più belli del mondo che se ne stanno, però, in assoluto silenzio, l’idea che, a quei suoni, noi si possa replicare con altri (“Paredes”, “Soulé”, “Svilar”, “Saele”) a cui riconosciamo valori assoluti, dà fiducia. Entro, quindi, sempre più convinto del fatto nostro e, nemmeno il tempo di trovare il mio seggiolino, che ci fanno sentire Battisti. Che va benissimo, ci mancherebbe. Ma la presunzione che, a ruoli invertiti, l’effetto del nostro inno sarebbe stato diverso, è fatta propria da un paio di seggiolini intorno a me («Io, Battisti al Circo Massimo per loro non l’ho mai visto»). Si inizia che non ci piace proprio: Paredes che pensa bene di farsi ammonire e Svilar che è costretto, da subito, a fare Svilar. Quei pochi seggiolini che sono lì e che hanno avuto la fortuna, da piccoli, di essere indirizzati sulla retta via, si lamentano. Perché «non è possibile che la palla la rigiochi sempre indietro»; perché «sulle palle da fermo sembra che giochiamo a “uno due tre stella”»; perché «’sta difesa a quattro e Saele a sinistra invece che a destra non mi convince»; perché «c’avemo ‘na punta che nun stoppa, nun fa la sponda, non se libera dell’omo». E poi «Pellegrini che j’ha preso io non lo so»; «ma perché tiene in panchina Elsha?»; «ma Pisilli? Non era meglio Pisilli che Paredes?». 

Insomma, si avverte che la delusione abbia preso, poco a poco, il sopravvento. Perché la Lazio sembra correre più di noi («sembra che giovedì abbiamo giocato noi, non loro»), sembra avere più voglia di vincere («Rovella è indemoniato, mentre i nostri li vedo troppo tranquilli»), e sembra che gli ex romanisti che giocano con loro si venderebbero casa pur di vincere («Romagnoli e Pellegrini non li ho mai visti giocare così convinti»). Ma il primo tempo scivola via, tolto lo spavento iniziale, senza particolari patemi («Svilar ha parato, ma non è che loro abbiano creato chissà che cosa»). Ci si domanda, a quel punto, cosa possa cambiare Ranieri. Si vede Cristante scaldarsi («Esce Paredes, non si può correre il rischio che si faccia espellere»), ma quel manipolo di fedelissimi si domanda se non sia il caso di togliere, da subito, Pellegrini e Dovbyk  («Stamo a giocà in nove») per far entrare Pisilli ed Eldor senza aspettare oltre. Non faccio nemmeno in tempo ad entrare in questa conversazione che Romagnoli bacia il suo stemma. Dopo, nemmeno a dirlo, che sull’ennesimo calcio da fermo ci eravamo fatti trovare «immobili come i difensori del Subbuteo». Ma questo, no. Questo, proprio no. Non si può perdere. Non si può perdere, soprattutto, con un gol di Romagnoli. Non può essere che il nostro Campionato, dopo tutta la fatica fatta per arrivare fin quassù, ad un passo da quelli e dalla Champions, svanisca di colpo («Non possiamo buttare in una settimana tutto alle ortiche»). Non si può permettere che questa stagione venga ricordata solo in negativo per essere stata quella «dei tre allenatori» e di qualcuno che ipotizzava che Dybala, anziché una risorsa, fosse un problema. No, questo non si può permettere. Ed allora dentro Eldor («Mò la pareggia lui») e, soprattutto, finalmente dentro la partita con quella poca, adesso l’abbiamo veramente capito, energia che è rimasta. E, per venti minuti, qualcosa torna a vedersi. 

Loro tornano indietro e noi, finalmente, iniziamo a giocare. E riusciamo, a quel punto, a pareggiare con un’azione ed una giocata che, se solo ci fossimo svegliati nel primo tempo, se solo avessimo provato a fare la partita da subito, chissà come sarebbe finita. Ma non l’abbiamo fatto. E questo Derby è sembrato il secondo tempo della partita contro la Juventus: abbiamo sofferto, abbiamo pareggiato, non abbiamo mai convintamente provato a vincere. La verità è adesso che quei sospetti della settimana corsa sono diventati certezza. Siamo stanchi. L’autostrada a tre corsie è finita. Adesso abbiamo iniziato la salita. Il problema, ed ormai si è capito anche questo, è che di benzina ne è rimasta davvero poca. Speriamo che ci basti fino alla fine. Speriamo.

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