Non è ancora finita
Da chi erroneamente pensava «mi sono abituato a vincere» a chi aveva dato per scontato la rimonta. Alla fine è un pari amaro e «il derby diventa decisivo»

(GETTY IMAGES)

L’autostrada a tre corsie, dritta e ben asfaltata, è purtroppo arrivata al termine. Adesso inizia il tratto in salita; le corsie diventano strette; le curve, tornanti. «Mi sono abituato a vincere». L’abitudine è, ogni tanto, una pessima compagna.
Mi verrebbe da dirlo a quel tifoso, ma non faccio in tempo a realizzare la necessità di una replica che mi devo gettare in bel altra mischia. Si parla, difatti, dall’altro lato, degli “sbagli” di Ranieri: «non è un allenatore da Coppe»; «l’Europa League è colpa sua»; «in Campionato adesso hai fatto il tuo, nulla di più». Ora, se qualcuno mi avesse detto, così, di spalle, all’improvviso, che i dazi statunitensi fossero una misura ragionata confesso che mi sarei arrabbiato di meno. E ho detto tutto. Non ce l’ho fatta, quindi, a limitarmi a prendere atto delle varie dichiarazioni che si susseguivano dal Ponte della Musica ai tornelli, ma mi sono fatto parte attiva, quasi da agente provocatore, per vedere dove si andasse a parare. Sono entrato, quindi, a gamba tesa: «Cioè, tu vuoi dire che questa serie di vittorie l’avremmo avuta anche con chiunque altro?». Il giovane, all’ascolto delle mie parole, si voltava, guardandomi come si guarda un fastidio, e prontamente replicava: «No, sto dicendo che contro le ultime in classifica era un dovere vincerle e non un merito». Ora, come si possa ritenere un “dovere” che questa Roma, quella che a dicembre stava ad un piede dagli spareggi per non retrocedere, tanto per intenderci, dopo una manciata di settimane arrivasse, con Ranieri, a vincerne dodici su diciotto ed a perderne soltanto tre, rimane un mistero. Perché quello che ha fatto sino a qui Ranieri, più che un “dovere” è un “miracolo”. E quindi avevo il destro facile per replicare che una Roma «prima nella classifica del 2025, nemmeno in sogno quando è stato esonerato Juric.
Quindi, la Roma avrà avuto ed avrà molti problemi, ma certo non quello dell’allenatore, che è stata ed è la soluzione». Tronfio dell’esito del certame dialettico mi approssimavo, quindi, finalmente ai tornelli. E lì la discussione cadeva sulla formazione, appena annunciata. Il dibattito spaziava dalla difesa all’attacco: «perché Hummels?»; «è meglio Celik»; «Cristante? Ancora cò Cristante?»; «E Pellegrini? Perché no Pellegrini?»; «Mah, io avrei messo Shomurodov». A dimostrazione che, una volta passata la tempesta, tutti ridiventano marinai. Perché lo sai perfettamente che la partita contro la Juventus, di Tudor e purtroppo non di Motta, non sarà facile. E che adesso, che la Champions sta lì che finalmente la vedi, ti sei dimenticato di ciò che è stato da agosto in poi. Ma che adesso, se non le vinciamo tutte, non va bene, beh, questo mi sembra francamente troppo. E questo mood, quando la partita è iniziata da pochi minuti, diviene palpabile. Perché la Juventus non ci fa toccare, letteralmente, palla, ed allora si materializza davanti agli occhi il nostro valore all’interno di questo Campionato: «bravi, sì, ma non bravissimi». E sono proprio quei quindici minuti iniziali che deprimono i seggiolini intorno a me. Perché «la Juventus è più squadra», «non abbiamo nessuno che chieda palla tra le linee», «Dybala manca troppo», «Dovbyk non ne tiene una».
Ovviamente, la preoccupazione aumenta in proporzione alle parate di Svilar, «perché questo l’hanno prossimo qui con noi non ci gioca più». Cadiamo in una depressione che nemmeno dopo la sconfitta di Como. E non bastano il palo di Elsha e l’occasione di Cristante («Ma il difensore da dove è uscito???») per dire che sì, loro giocano meglio, ma non è che abbiamo fatto chissacché più di noi. Non basta, perché Locatelli segna, a conclusione di un’azione che sembra che in trentacinque di loro all’improvviso siano arrivati nella nostra area. E quelle teste basse, prima della ripresa del gioco, a qualcuno è sembrato un atto di resa («Siamo a fine corsa»). Poi, però, Ranieri, quello che avrebbe sbagliato (ma cosa?!?!), ridisegna la squadra. Inserisce Shomurodov (staccata: «Se a novembre mi avessero detto che sarei stato felice vendendo entrare Shomurodov, gli avrei detto che sarebbe potuto accadere soltanto se fosse andato a giocare con la Lazio…»), che, nemmeno pochi minuti, e segna un gol «che meno male che stava a un metro dalla porta, sennò quel pallone pijava ‘na macchina a Piazza Mazzini…». Ma pareggia, e, a questo punto, c’è tutto un tempo per tornare agli stessi punti di quegli altri, che hanno battuto «la peggiore Atalanta, che a noi stai sicuro non ci capita mai». Ma quel secondo tempo lo giocano più loro che noi. Che difendiamo, rischiamo, avremmo potuto, ma, alla fine, ci accontentiamo di pareggiare. E, a quel punto, non sappiamo con quale faccia uscire dalla Tevere. «È sempre un pareggio». «Stiamo lì». «Certo, è più utile a loro che a noi». «Diventa decisiva domenica».
Insomma, si mastica comunque amaro. La verità, che purtroppo non piace a nessuno, è che questa partita ha dimostrato che Ranieri davvero ha fatto un miracolo. E che si può essere ottimisti, innamorati della Roma, sognatori, tutto quello che volete. Ma i miracoli non sono soltanto quando vince scudetti e Coppe. Sono anche quando ti metti in condizione di giocarti la Champions quando appena 4 mesi fa ti domandavi come avremmo reagito a trovarci impelagati lì in basso. E che non è che tutti gli anni puoi andare in semifinale o in finale in Europa. Quindi, ci si dispiace («Sarebbe stato bello vincere»), ci si preoccupa («Domenica sarà durissima»), si confida in chi stasera non c’era («Pelle e Saele, come all’andata»). Ma rimane quella voglia di tornare ad essere felici. Perché adesso non lo siamo. Ci manca rincorrere i sogni. Ci manca non andarci vicino. E questo quel genio di Mou l’aveva capito. Ma questo l’ha capito anche Ranieri. Ed è per questo che questa stagione non è ancora finita. Portate pazienza, quindi. Perché i miracoli arrivano, ed arrivano proprio quando meno te li aspetti.
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