AS Roma

«Adesso stiamo lì»

Ancora con le scorie dell’eliminazione dall’Europa League ma tra gli aggiornamenti da Bologna («Stanno a perde») e i tre punti, torna un po’ il sorriso

(GETTY IMAGES)

PUBBLICATO DA Federico Vecchio
18 Marzo 2025 - 07:00

«Non sono d’accordo». Sono a piedi ed ho appena parcheggiato il motorino. Mi intruppo in un gruppo di seggiolini a me noti e mi unisco a loro nel lungo cammino che ci distanzia dai tornelli. Nessuno è d’accordo con l’altro. Qualcuno, difatti, è d’accordo con Ranieri. Qualcun altro, no. Qualcuno ritiene che non si possa non giocare un ottavo senza Pelle e senza Konè. Qualcun altro, sì. E poi c’è chi ritiene che Shomu «me lo dovevi mettere dall’inizio». Qualcun altro, che la scelta era corretta, perché, poi, saresti arrivato al sessantesimo, se non ci si fosse messo di mezzo Turpin, e lì l’avresti chiusa con i cambi. E poi l’errore, dopo che Turpin ha fatto quello che non avrebbe fatto se si fosse trovato ad arbitrare Bayern-Real (Ranieri dixit), è stato quello di non cambiare subito. E invece, no: ha fatto bene a non cambiare subito, perché il primo tempo lo stavamo portando a casa. Insomma, il regno del disaccordo. 

Che lo capisci subito che, se fino ad Empoli eravamo tutti felici, increduli e fiduciosi, questo cambiamento repentino, legato ad una sconfitta che brucia ma che si poteva mettere in preventivo («Sono i quarti in Liga, non i quarti di un campionato che giocano con i borsoni al posto dei pali»), nasce soltanto dalla delusione figlia del risveglio da un sogno che, per noi, negli ultimi anni, fatti di finali e semifinali, è sempre stato realtà. E allora questo tutti contro tutti va capito. 
Nessuno ce l’ha con Ranieri, anche se si affretta a ricordare, nel tentativo di difendere la propria tesi, ma senza troppa convinzione, come «nelle Coppe non è mai andato avanti». Perché tutti sanno non solo chi sia Ranieri e quello che abbia vinto, ma soprattutto che, alla fine di questo Roma-Cagliari, se le cose dovessero andare come tutti speriamo, anche alla luce delle notizie che arrivano da Bologna («Stanno a perde»), potremmo davvero rientrare in corsa per la Champions che, solo a pensarlo e nemmeno a dirlo, appena qualche settimana fa ci avrebbe messo accanto un amministratore di sostegno. E invece la delusione è talmente tanta che tutte quelle parole, così, alla rinfusa, contro questo, contro quello, contro la sorte, contro il “sistema”, contro quelli che sempre a noi, rimangono rivolte a ciò che è stato e vanno capite.

Ci si sfoga, ma soltanto per cercare di trovare un modo di digerire la delusione. Che viene amplificata da quelle bandiere che, nel percorso, rispolverate dalla splendida cornice contro il Bilbao, ricompaiono in mano a qualcuno. E stanno lì, a ricordarci di quando eravamo felici e chissà se lo saremo ancora. Ma la vera annotazione è che, in tutto quel lunghissimo cammino, fatto di contrasti verbali su qualunque cosa (addirittura sul cromatismo: «Il blu non va bene, dai tempi che avemo perso in Francia col Monaco», «E come dovemo giocà, se quelli c’hanno le maglie bianche e rosse???», «Pe’ me, tutti de giallo») nemmeno mezza parola viene spesa su Roma-Cagliari. Il massimo dello sguardo in avanti è rivolto alla curiosità di chi giocherà punta e se Hummels verrà schierato («Pe me, no. Je vò evità i fischi»). Ma lì ci si ferma. 

Quando prendo posto in Tevere nulla cambia. Si, giochiamo perennemente nella loro metà campo, ma i sussulti arrivano solo da Bologna. Non tiriamo, il Cagliari non fa nulla di che, noi giochiamo decorosamente anche se senza essere incisivi. Ma, tutto sommato, lo sguardo continua ad essere distante, rivolto al passato. Si va negli spogliatoi convinti che adesso segniamo. Ma si ritorna a parlare che ce l’avremmo potuta fare. E che non puoi espellere uno che va sul pallone a cinquanta metri dalla porta. Non ce niente da fare: si ritorna sempre lì. Poi inizia il secondo tempo ed il Cagliari ha la forza di risvegliare la Tevere da questo incantesimo. Gli attacchi si fanno, nei primi minuti, pressanti e Svilar dimostra ancora una volta che «l’anno prossimo mica lo so se resta». A quel punto i seggiolini si rendono conto che c’è ancora qualcosa da fare, che si può tornare in Europa l’anno prossimo vincendo proprio queste partite. Ed allora, quando il Pichichi, solo davanti al nulla, apre il piatto sinistro e tira verso la Monte Mario, il sentimento che pervade l’intera Tribuna è una sintesi del momento («Non è possibile: c’hanno fatto er malocchio. Nun è possibile tirà de qua e mannalla de là»). Poi, però, Dovbyk segna, Svilar para e ripara ancora e, alla fine, intorno a mezzanotte, al termine del recupero, finalmente riprendiamo la via del ritorno.

E allora i ragionamenti diventano altri. Quel dispiacere resta lì, intatto, ma finalmente coperto da un risultato che ci fa sentire, per la prima volta in questo campionato, diversi rispetto a prima perché protagonisti a pieno titolo («Adesso stamo à ’na manciata de punti da tutte: mo dipende solo da noi»). C’è, ovviamente, l’uscita di Dybala che preoccupa («Perché una cosa è la Roma cò lui, un’altra senza») ma il sentimento che si diffonde è un altro. È inutile nascondere, difatti, che il risultato di Bologna non riaccende entusiasmi ma almeno rilassa («Adesso stanno a due punti e li possiamo riprendere. Almeno questa») e perché quelle che sono davvero più in forma sembrano essere Fiorentina e Bologna, «che qua devono venire». Ma la verità è che, finalmente, ci sentiamo vivi anche in campionato. Ed anche se una qualificazione in Europa non sarai mai come alzare una Coppa, l’idea che, quest’anno, che è iniziato, per noi, tre mesi dopo gli altri, si possa arrivare più su dei soliti sessantatré punti, è un segnale di compattezza che lascia ben sperare. E che avrebbe un solo protagonista a cui dire grazie, nel caso fosse: Claudio Ranieri. Ed è bene ricordarlo quando si ripensa a Bilbao. Anche provando ad attribuirgli, così, tanto per sfogarsi, qualche colpa. Perché tutti si sbaglia. Anche Ranieri, Ma lui meno di tutti. E questo va sempre ricordato.  

P.S.: il “minuto di silenzio” è quella cosa che si fa tutti insieme stando in piedi, in silenzio, per un minuto. So che è complicato, ma la prossima volta che capita vediamo se ci riusciamo. Dai. Possiamo farcela.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

CONSIGLIATI