AS Roma

Tra i sogni e i «Se»

Ranieri la rimonta con i cambi e in tribuna aumentano i rimpianti per l’inizio della stagione. In tutto ciò, però, giovedì c’è la gara più importante, altro che piazzamenti Champions

(GETTY IMAGES)

PUBBLICATO DA Federico Vecchio
04 Marzo 2025 - 07:00

C’è da lottare ancora. Strenuamente. Perché, se alla partita contro il Monza il nemico erano state le “tabelle”, con lo sguardo incantato rivolto al futuro, ora il nemico è cambiato, e lo sguardo, torvo, è rivolto al passato. Il nemico è diventato un altro. Il nemico, adesso, è lui: il “se”.
È bastato mettermi in fila ai tornelli per sentirlo arrivare, prepotentemente, ribalzando da qui a lì: «Se avessimo vinto a Cagliari», «Se non avessimo pareggiato a Marassi», «Se non avessimo preso quel gol a Monza», «Se avessimo fatto più attenzione a Verona». Una sfilza di “se”. E chi vi scrive non ha resistito. Lo so bene che compito di un cronista (che, peraltro, non sono) sarebbe quello di riportare ciò che accade e non di provocare gli eventi, ma io sono tifoso. E delle volte non ce la faccio. Quindi, all’ennesimo “se” è stato un attimo contestare che, mettendoli tutti in fila, a quest’ora avremmo vinto il campionato con dodici giornate di anticipo. E che anche basta con i “se” (e pure con le “tabelle”, aggiungo). Anche perché quei “se”, che costituivano, nel certame che vi riporto, l’assoluta maggioranza, recitavano un sottotesto, forse anche più pericoloso: «Ce la possiamo ancora fare». Si, ma a fare che? «Ad andare in Champions». E qui, davvero, qualunque pazienza sarebbe messa a dura prova. Ma come, appena prima di Natale «Speramo che se sarvamo» e adesso ci manca poco che mi chiedi «A quanti punti stamo dall’Inter?».

Ovviamente, mi buttavo in questa discussione a testa bassa. Va da sé che, chi vi scrive, ha solo due date in testa: il 6 ed il 13. Tutto il resto conta il giusto. Soprattutto, se verrà, verrà dopo. Perché queste due date saranno lo snodo della nostra maldestra stagione. Che potrebbe virare al sogno o all’indifferenza. Ma la replica che mi veniva rivolta era da tifoso più dei bilanci societari che dei risultati sportivi: «Pensa che, se arriviamo in Champions, ripianiamo i conti».
Tutto molto bello, se non fosse che anche vincendo l’Europa League, magari fosse, andremmo in Champions. Ma, soprattutto, io che sono tifoso e che ho una certa anzianità anagrafica, mi ricordo gli scudetti vinti e le Coppe vinte, ma se tu mi chiedessi quante volte la Roma sia arrivata seconda e quante volte abbia partecipato alla Champions, già non saprei dirtelo. Perché noi viviamo per Tirana, viviamo per Budapest senza Taylor, viviamo per quel Roma-Torino e per quel Roma-Parma. Lì voglio arrivare. Non rincorrere un posto in campionato per il quale, nelle prossime dodici partite - in cui, dopo il Lecce, giochiamo contro tutte tranne Real e Liverpool - mantenere questo filotto di vittorie sarà più complicato.

Io sono stanco del vinciamo l’anno prossimo. Adesso abbiamo la possibilità, peraltro complicatissima, di andare avanti in un’Europa League più facile degli scorsi anni, e proviamoci, dico io. No, invece. “Se” avessimo fatto più punti, adesso, che finalmente «Possiamo battere chiunque», ce la giocheremmo in campionato. Ma adesso non «Possiamo battere chiunque», come avrei detto, se solo non fosse stato inghiottito da uno dei tanti boccaporti della Tevere, al mio simpatico contraddittore in fila ai tornelli, al momento in cui Mancini è andato a cercare non si sa chi in mezzo al campo («Lo vedi a che serve Hummels?»). Perché sull’uno a zero per il Como, il dubbio che non fossimo proprio quella macchina da guerra sottesa a tutti quei “se”, dovrebbe essere venuto a tutti. E, a ricordarlo, non c’erano tanto le “sviste” di Eldor («Fa tutto bene fino a quando non gli arriva il pallone tra i piedi…»), quanto la mancanza di tiri in porta. E la constatazione, plastica, delle difficoltà era evidente icto oculi: «Questi corono de più e palleggiano mejo de noi». La verità è che poi, in panchina (ma anche in Società, perché, come noto, non è che stia solo in panchina) noi abbiamo uno dei più grandi conoscitori di calcio in circolazione, a cui bastano cinque cambi e qualche aggiustamento e un Dybala che faccia incetta di cartellini, gialli e rossi.

E così una partita che si stava complicando diventa una partita che «La possiamo vincere facile». Ed allora tutti ad elogiare Cristante («Ma lo vedo solo io che adesso gioca sempre in verticale?»), Saele («Il Milan se lo viene a riprendere stasera, non aspetta giugno»), Celik («Che te devo dì? È diventato bravo»), il Pichichi («Ancora cò ’sta storia che segna poco?!»), Rensch («Un terzino che fa quei cross al volo nun lo trovi facile»). Il problema è che il Como, in dieci, ci metteva, poi, in seria difficoltà («Perché se sbilanciamo troppo») ed era soltanto il palo a salvarci («Quando è partita quella palla, ho guardato subito il tabellone per capire quanti minuti avremmo avuto per sperare di fare il terzo…»). A riprova che se torniamo a casa contenti è anche merito della fortuna.

E così, dopo che Elsha tirava lì dove il portiere si era buttato («Je l’ha tirata addosso…»), finalmente tiravamo un sospiro di sollievo. Quarta vittoria consecutiva, rosa ritrovata, classifica migliorata. Il problema, però, è che adesso dovremmo soltanto pensare all’Europa League. Perché da lì passa davvero molto. E invece, no. Scendo le scale. Incontro un fraterno amico. Mi vede e, prima ancora di una qualunque fonema sintetizzante un saluto, mi invita a riflettere sul «Se non avessimo buttato tutti quei punti all’inizio…». Ora, non è mio costume nemmeno lontanamente ipotizzare di fare finire un’amicizia per questo. Ma stasera, a quattro giorni dalla partita dell’anno, la tentazione è forte.

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