Giacomino Losi per sempre
Il racconto dell’impossibile gol alla Samp di un difensore alto un metro e 68, con l’inguine strappato, zoppicante, che in sei anni di A non aveva mai segnato, prima di decidere di arrampicarsi in cielo
È l’8 gennaio 1961, Roma-Sampdoria, sempre un po’ il giorno prima (il 9 gennaio ma del 1977 in una Roma-Sampdoria nascerà il più grande cuore che Roma abbia mai avuto: il Commando Ultrà Curva Sud) partita importante, fino a due settimane prima la Roma era prima, adesso xiv giornata è seconda a due punti dall’Inter. Si gioca all’Olimpico. Piove. Poi uscirà il sole. Losi per anticipare Brighenti allarga la gamba, ma apre troppo, si fa male. Strilla. Resta a terra. La faccia è una smorfia, si è strappato l’inguine. Deve uscire. Dovrebbe.
Gli fanno un’iniezione di novocaina, gli mettono una fascia elastica, fanno fatica anche a rialzarlo. Si rialza. Non esce, ma non perché non ci siano le sostituzioni piuttosto perché «io per la Roma giocavo anche da morto». Guarnacci intanto si è rotto una gamba. Lo devono portare via in spalle. La Roma è in dieci, con Losi che a malapena zoppica. Si mette all’ala destra. Più che altro incoraggia i compagni. La Roma non si sa come va in vantaggio con Lojacono, poi tutto va secondo logica: 1-1, 2-1 per la Samp gol di Cucchiaroni e di Brighenti. Manca un quarto d’ora alla fine. Manca anche di meno quando Pedro Manfredini si trova il pallone buono per il pareggio, si allarga, sembra sprecarla e invece incrocia il 2-2.
A quel punto la partita diventa un’altra cosa, siamo in quello stato particolare dove i ragionamenti non servono, dove capisci solo che si può fare e che anzi si deve fare. «A quel punto noi, la gente, l’Olimpico volevamo vincere». La Roma in nove giocatori più Losi va all’attacco sotto la Sud. C’è un angolo, Lojacono lo indirizza al centro dove c’è pure Losi che però non può fare molto su quel pallone, e in teoria quasi niente su qualsiasi pallone in quella partita: si è strappato l’inguine, zoppica; Mino non è mai stato così piccolo come quando Lojacono va a battere il secondo calcio d’angolo consecutivo dall’altra parte: bandierina che divide il Distinto Monte Mario dalla Sud.
Quando Lojacono attraversa il campo, Losi gli dice: «Cisco, tiralo come quell’altro verso di me». «Ci provo». Ci riesce. Nessuno sta razionalizzando niente: la Roma in nove più Mino sta cercando di battere un calcio d’angolo non verso Charles, Piola o Meazza, ma verso un difensore alto un metro e 68, che ha l’inguine strappato, zoppica, gioca da sei anni in serie A e non ha mai segnato un gol. Mai. Fino a quel momento. Esce il sole. La maglia rossa numero 8 di Lojacono si tira nel calcio forte dritto per dritto verso il centro dell’area piccola, dove c’è il piccoletto. Forse se lo sono scordato, forse non l’hanno calcolato, quello zoppica, quello è uno stopper, quello è Losi. Sì quello che non si sa come fa piede perno con la gamba buona, salta con tutte e due le gambe più in alto dei difensori anticipando l’uscita di Sattolo, è Losi. Quello che colpisce di testa, girandola, mettendola sotto la traversa e che poi impazzisce è Losi.
Salta con la gamba dolorante, Orlando se lo abbraccia, lo tira su a due mani, lui alza al cielo le due braccia: è un’esultanza così pura, così semplice, così intensa, così spontanea... Così Roma. Sembra una scena dell’Attimo fuggente con l’Inno alla gioia e il professor Keating portato in trionfo dai suoi alunni nei boschi. Carpe diem. Carpe diem significa quello che è appena successo a Roma l’8 gennaio 1961. Credo che Losi su quell’attimo talmente breve da diventare fisso sia saltato – bucando qualcosa – fino a prendere un gancio in fondo al cielo dove, come un quadro famoso, è ancora appeso. È la Cappella Sistina del nostro sentimento una partita come quella. Ecco, se qualcuno vi chiede ma perché voi della Roma siete così della Roma? Rispondetegli per Giacomo Losi.
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