AS Roma

Roma-Eintracht Francoforte: nel giardino di casa

Dalle preoccupazioni perché i tedeschi «Non vengono qui a regalarcela», alle soddisfazioni «Il nostro vero inizio», fino al rammarico per il tempo perso

(GETTY IMAGES)

PUBBLICATO DA Federico Vecchio
01 Febbraio 2025 - 07:30

Stavolta non è che ci sia tanto spazio per i sé e per i ma. La classifica è quella che è. Quegli altri, lassù, che, anche se fanno finta di non pensarci, stanno cullando un sogno («Ce girano intorno, fanno finta de gnente, ma ce credono»). Noi, molto più in basso, a dover scongiurare un’eliminazione che sarebbe devastante, anche in ragione del combinato disposto di quelli che viaggiano a gonfie vele («Non ci voglio pensare»). La fiducia è tanta («Stiamo giocando bene»). Ma la preoccupazione, pure. Perché giochiamo contro una squadra che potrebbe batterci («Possiamo perdere. Ci sta»). E questo è chiaro a tutti.

«Giocano per vincere» 

Si scandagliano i punti deboli, ci si appoggia alle certezze. Si, ma a quali? L’unica cosa certa è che occorre vincere. Troppo complicato fare calcoli. Troppo rischioso stare lì a pensare che se in Portogallo quello segna, e se segna quell’altro in Spagna, e se pareggia quell’altro in Svezia. Troppo complicato. E troppo pericoloso. Meglio stare a pensare che si abbia un solo risultato («Vinciamo. È l’unica»). Il “formaggino” della Nord è pieno («Non sono venuti qui per vedere perdere»). Preoccupa la voce che Paredes possa andare al Boca («Ma è vera ‘sta notizia?»). Perché queste sono partite che vinci con la convinzione. E se il tuo prossimo obiettivo, da qui a pochi giorni, è il derby alla Bombonera, il senso di smobilitazione potrebbe essere contagioso. Ma i Tornelli non vogliono tentennamenti. È come se si fosse iniziata la rincorsa. È da fine agosto che aspettavamo di capire cosa fossimo e cosa fossimo diventati.

Appena qualche settimana fa avevamo il baratro alle nostre spalle, la zona Champions ad anni luce di distanza, una squadra a brandelli. In cui, tolto il portiere, non sapevi a che Santo votarti. Poi, a poco a poco, abbiamo ritrovato un senso. Abbiamo battuto quegli altri, siamo usciti indenni dal Milan e dal Bologna, ci siamo spostati nella colonna di sinistra, abbiamo messo nel mirino proprio il Bologna ed il Milan, la zona Champions è sì distante, ma non è più irraggiungibile. E quindi ci sediamo convinti che da questa partita, finalmente, inizi la nostra Stagione («Questa è la prima partita della nostra Europa League, diciamolo»). Che da questa partita inizi la nostra corsa in direzione Bilbao. Che finalmente il viaggio possa iniziare. Niente più tentennamenti. Niente più schemi, incertezze, dubbi. Abbiamo un Capitano, abbiamo Dybala, abbiamo un centravanti che ci fa storcere magari il naso ma che segna e che segna gol importanti («Diamogli tempo»). Abbiamo un portiere, Angeliño a sinistra ed il nuovo arrivato a destra. Abbiamo Saele. Abbiamo Mats. Abbiamo. Finalmente abbiamo. Finalmente ci siamo anche noi. Ed ora si parte. Stiamo lì. 

Colpo su colpo

Questi giocano, ma noi iniziamo a mettere la testa fuori. Iniziamo a prendere possesso del campo («Guarda che non stiamo giocando male»). Il Pichichi manda il pallone sul tetto della Farnesina, ma poco male («Non se l’aspettava»). Mancini prende il palo di testa, ma poco male. Si vede che, prima o poi. E, soprattutto, si vede che con un Angeliño in quelle condizioni, che forse Rocca nella prima Roma del Barone, dai e dai qualcosa succede («È una spina nel fianco. Bene così»). E succede. Ma, contrariamente a quello che ti aspetti, succede non per uno dei meravigliosi cross messi dentro da sinistra, ma con il nostro, il più piccolo di tutti, che sbuca sul secondo palo e segna come Balzaretti a quegli altri («Te lo ricordi?»). Lì, in quel momento, il sospiro di sollievo si sente. Perché perdere vorrebbe dire uscire. Vorrebbe dire non avere in testa Bilbao da qui a quando sarà. Vorrebbe dire uscire da quell’Europa che, ormai, è il giardino di casa nostra («Ormai ci siamo abituati»). Ma teniamo. E partiamo nel secondo tempo con molti che imprecano sull’assenza di Lukaku («Dovevamo chiuderla nel primo tempo»; «Non lo so, ma Lukaku, da lì, segnava»).

Ma teniamo. E ci andiamo vicini. Fino a quando, dopo che Paulo ha spiegato per settanta minuti cosa significhi non farsi togliere il pallone («Lo volevano vendere…»), Soulè, che una ne fa e cento ne pensa («Ma perché non gioca facile cercando il compagno prima di liberarsi del pallone?»), si inventa un’azione che definire “giocata” è poco. Ed Eldor, quello che oggi pranza a Trigoria e stasera cena al Cipriani in Laguna, dopo un meraviglioso controllo di testa sbaglia tutto per poi azzeccare tutto («Se l’era magnato, ma l’ha fatto!»). A quel punto le certezze si rafforzano, i dubbi si affievoliscono, la cartina della Spagna riemerge nei pensieri di molti («Ma Bilbao, ‘ndo sta proprio?»). Si, è vero: il mercato è ancora aperto. Ma i seggiolini a me più prossimi sono più preoccupati, a questo punto, delle possibili partenze («Speriamo che Paredes resti») che dalla mancanza degli arrivi («Anche così non siamo malissimo»). Ci manca la seconda punta, ma forse. Ci serve un terzino: ma ne siamo propri sicuri? Abbiamo ora un portiere di riserva che potrebbe fare il titolare. Cristante è tornato. Paredes lo voglio vedere che vada via proprio ora. Soulè è vivo. Abbiamo tutto quello che ci serve per poter sperare. Magari non per vincere. Ma per giocarcela, sì. Perché quando l’arbitro fischia, a quel punto rimane solo da sperare in un buon sorteggio («Ma, fortunati come siamo, vedrai che ci capita il Real Madrid …»). 

Le piccole cose

Ed è proprio a quel punto che un mio fraterno e prezioso amico - che, con nome di fantasia, chiamerò “Lorenzo” - a cui mi sento di poter riconoscere innumerevoli pregi contrastati da un solo gravissimo ed imperdonabile difetto - ricordava, a me e ad un manipolo di pochi componenti di una esclusivissima chat, che loro sono primi e noi quindicesimi. Ed il mio primo pensiero è che noi potevamo essere, dopo questi novanta minuti, non quindicesimi ma addirittura venticinquesimi. E che allora, sì, che avrebbero potuto, a buon diritto, essere contenti. Invece gli rimane solo di essere contenti per la certezza di giocare gli ottavi di una Coppa Europea. Gli ottavi di finale, appunto. A dimostrazione che la felicità, a volte, si annida nelle piccole cose.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

CONSIGLIATI