AS Roma

Vittoria e disincanto

Battere i blucerchiati in Coppa non aiuta a dimenticare la rabbia dopo Como. «Loro stanno a noi come noi stiamo all’Inter, t’ho detto tutto». Eppure i tifosi ci sono: «Senza non so stare»

(GETTY IMAGES)

PUBBLICATO DA Federico Vecchio
20 Dicembre 2024 - 07:30

Il passo è leggermente stanco. Sarà perché si tratta di un ottavo di Coppa Italia, sarà perché Como una frattura, magari piccola, l’ha determinata. La sintesi del momento, mentre, lento pede, ci avviciniamo all’Obelisco è tutta in quell’«avevo dimenticato come si sta una volta che sei fermo nella parte destra della classifica». Si spengono le ambizioni («Stagione inutile»). I desideri, quelli, rimangono sempre («Certo, c’è ancora la Coppa Italia e L’Europa League»), ma quello che prevale è il disincanto («Anche Ranieri non ci sta riuscendo»). Ma fino a qui galleggiamo. È quando, in fila, che una voce ricorda come si stia a due punti dalla B che inizia a vacillare un po’ tutto. Perché, in quel momento, quella frase serpeggia tra tutti e si annida come solo una paura collettiva sa fare («Adesso dobbiamo davvero iniziare a preoccuparci»). Ecco, forse Como, per noi, non verrà ricordata solo per l’imprendibile Gabrielloni, di cui la totalità di noi, fino al 92’, sconosceva l’esistenza su questo globo terraqueo («Ma giocava in Primavera?», «Macchè! C’ha trentanni», «E allora ’ndo giocava?», «Non lo so, ma me sa che, se glielo chiedi, manco a casa sua lo sanno»). Verrà ricordata per altro. Per averci catapultato in una dimensione per molti di noi, questa sì, sconosciuta. Quella in cui ti trovi a guardare in basso, e non in alto. A dover scappare e non a dover rincorrere.

La gara, a quel punto, è tutto un «ti ricordi». Ti ricordi l’Atalanta e Pruzzo, l’Atalanta e Cassano, il Foggia e Giannini. Ti ricordi. La verità è che noi, in questa situazione, non ci riusciamo a stare. Non è più nel nostro DNA. Da quel rigore parato da Tancredi al Torino, quando ancora vestivamo le maglie della Pouchain, noi quel passato ce lo siamo buttati alle spalle ed abbiamo sempre vissuto avendo in mano le carte buone da giocare. Magari c’è mancata la carta giusta per chiudere, ma lì stavamo. Adesso stiamo qui che contiamo le carte del mazzo perché proprio non ci tornano i conti («Io non mi ritrovo a pensare che domenica, col Parma, se non vinciamo finiamo male. Io mi ricordo che col Parma dovevamo vincere per lo Scudetto. A tutto questo, oggi, non sono attrezzato»). Il passo è sempre leggermente stanco. Prendiamo posto. La Samp lo vedi che è ben poca cosa. E questo, invece di rincuorarci, ci getta ancora di più nella preoccupazione («Tu lo capisci che noi soltanto contro una squadra che ha un piede in C riusciamo a fare la partita?»; «La Sampdoria sta a noi come noi stiamo all’Inter. T’ho detto tutto»). 

Sempre presenti

E questo senso di scoramento incredibilmente aumenta vedendo la tifoseria avversaria, che è appassionata e canta esattamente come noi se ci trovassimo al loro posto. Perché noi stiamo accanto alla Roma sempre («Mia moglie mi ha chiesto perché venissi allo Stadio che tanto la Roma non vince mai. Ma io non ce la faccio a non esserci»). Ed allora ti viene il dubbio che tu puoi poco, perché possiamo inanellare sold out, ma poi, se quando vai a Como scopri che anche Gabrielloni sta sull’album della Panini, forse è arrivato il momento di uscire dall’incantesimo («Basta col ‘mo facciamo la rincorsa, proviamo a vincere la Coppa Italia, andiamo avanti in Europa League. Basta. Dobbiamo sperare solo che riusciamo a salvarci»). Poi segna il Pichichi, e poi risegna il Pichichi. E sempre su assist di Saelemaekers. E poi Baldanzi segna alla Baldanzi. E poi Eldor segna dopo che lì dietro abbiamo fatto l’ennesima frittata stagionale («Non poi stà mai tranquillo»).

Ma non troviamo pace. Strappa un sorriso il «mancano quattro partite per vincere la Coppa Italia: due in case e due fuori». Strappa un sorriso perché la sensazione è che la nostra dimensione attuale sia ben altra. E che prima di ritrovare quella vera troppi nodi vadano ancora dipanati. Perché c’è il tormentone Dybala («Quest’estate, se fosse partito, ci sarei rimasto male, ma adesso, dopo soli due gol, forse un pensierino a cederlo va fatto»; «Ma se parte Dybala chi gioca? Soulè? Non scherziamo»), c’è il tormentone Pellegrini («Ma perché non l’ha fatto giocare?», «Secondo me non lo vede più titolare»), c’è una nuova gerarchia che si va delineando («Secondo me lui punta tutto su Hummels, Paredes e Konè. Gli altri li fa ruotare»). E poi c’è Cristante sparito («È infortunato», «Macché, secondo me non lo vede»), Hermoso che non capisci se sia forte o meno («È forte, se vede», «No, uno sbaglio serio a partita lo fa sempre») e se abbia la voglia di rimboccarsi le maniche per questa Roma («Ha la testa al Real»). 
E poi ci si pone la domanda del perché Mancini a Como non sia partito titolare («Rimane un mistero»), del perché Celik, gira che ti rigira, alla fine giochi sempre («Per me a Trigoria è quello che se ‘nfila per primo sul pullman»). Ci si interroga sulla sbrasata di Svilar a Como, perché, da sempre, ha dato l’impressione di essere uno tranquillo che mai avrebbe alzato la voce verso un compagno («Per me è nervoso per il rinnovo del contratto»). 

Tante domande

È tutta una domanda ed un dubbio. Ma siamo lì, in attesa. Perché adesso lo sappiamo tutti che non c’è più margine. Abbiamo il Parma, poi il Milan, poi il Derby. Può essere tutto. Nel bene e, purtroppo, anche nel male. Ed il male non si anniderebbe soltanto nel non fare punti, ma nella consapevolezza, semmai fosse, che anche Ranieri non sia riuscito a risollevare il malato. Ed allora non sapremmo più a chi votarci.  Scendiamo le scale, camminiamo fianco a fianco. Non si parla di Samp, della doppietta del Pichichi, del gol, al solito, bello ed inutile di Eldor. No, non si parla di questo. Non si parla di niente. Si aspetta solo domenica. Perché, tra poche ore, vincere sarà, stavolta come non mai, davvero l’unica cosa che conta. Ecco a cosa è servita Como: a prepararci a questo. Speriamo l’abbiano compreso tutti.

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